Ivan IllichDa la repubblica del 2-XII-06 (pag. 47) riporto l'articolo seguente su Ivan Illich (Vienna 1926 – Brema 2002), un intellettuale austriaco particolarmente critico nei confronti della civiltà industriale, e le sue lucide, anticonformistiche intuizioni sul tema trasporti/energia/velocità, esposte nel suo libro "Elogio della bicicletta" :

 

Diciotto biciclette al posto di un’auto

EMANUELA AUDISIO

Pedalare è libertà. È non scomodare il mondo. 

La bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare 18 al posto di un’auto.

Ce lo ricorda lvan Illich, un antropologo scomodo, favorevole alla modernità conviviale a basso consumo di energia. Il libro è attuale, si chiama Elogio della bicicletta (con post-prefazione di Franco La Cecla). Sono passati 33 anni e l’automobile è sempre più un ossimoro, impedisce all’individuo di spostarsi.

«Nei paesi dove non esiste un’industria del trasporto, la gente riesce a ottenere lo stesso risultato andando a piedi ovunque voglia, e il traffico assorbe dal tre all’otto per cento del tempo sociale». Gli Usa investono nei veicoli tra il 25 e il 45 per cento di tutta l’energia di cui dispongono e la maggior parte di questa energia serve a spostare persone immobilizzate con delle cinghie. Al solo scopo di trasportare gente, 250 milioni di americani destinano più combustibile di quanti ne impiegano 1,3 miliardi di cinesi e di indiani. E tutto per la voglia di un’accelerazione dissipatrice di tempo.

Illich pedala con una meta: non si può accettare che la geografia del paese venga modellata in funzione dei veicoli e non delle persone. L’americano dedica ogni anno alla propria auto più di 1.600 ore. Per fare circa 12 mila chilometri: appena sette chilometri e mezzo per ogni ora. Il prodotto dell’industria del trasporto è il passeggero abituale che, esasperato dalla penuria di tempo, chiede una dose maggiore di droga: cioè più traffico e mezzi. Aspetta la salvezza da innovazioni tecniche, dimentica che sarà sempre lui a pagare il conto. Drogato, non sa più affrontare da solo le distanze. “Incontrarsi” per lui significa essere collegato dai veicoli. Non vuole essere più libero come cittadino, ma più servito come cliente. Vuole un prodotto migliore, non liberarsi dall’asservimento ai prodotti.

Rinfrescate la testa: pedalate, gente.

Da la repubblica del 2-XII-06

 

 

In http://clevercycles.com/energy_and_equity/  si trova il testo di "Energy and Equity" (uscito su Le Monde nel 1973) che può considerarsi  una prima stesura di "L'elogio della bicicletta". 
In questo interessante saggio Illich, oltre a sottolineare l'inefficienza (dimostrata dalla pratica quotidiana, oltre che dalle leggi della termodinamica) dei mezzi ad alta velocità, esamina i rischi di un modello di sviluppo  che comporti una crescente accelerazione e quindi un alto dispendio di energia, dal punto di vista non tanto della limitatezza delle risorse ambientali, quanto dei nuovi rapporti sociali che si vengono a determinare tra chi (individui o società) può disporre di mezzi ad alta velocità e chi no; l'illusione che il benessere si possa misurare -e vada quindi ricercato- in funzione dell'elevata quantità d'energia pro capite usata è fuorviante e pericolosa, anche perché presuppone che chi ambisce ad andare a velocità sempre maggiore finisca col considerare il proprio tempo (la propria attività, la propria persona) più importante di quello altrui.
 Insomma, "dimmi a che velocità vai e ti dirò quanto vali".  Il maschio americano medio spreca in auto 1600 ore all'anno per percorrere 7.500 miglia: meno di 5 miglia all'ora (per non parlare del tempo perso in parcheggi, ospedali, controversie...) Persone che si spostano a piedi a 3-4 miglia l'ora sono sostanzialmente uguali, ma oltre una certa soglia non si può guadagnare tempo se non togliendolo ad altri.

Ecco perché, al contrario di quanto si crede comunemente, maggiore velocità-energia si risolve in minore equità.

 L'alta velocità è il fattore critico che rende i trasporti socialmente rovinosi. L'accelerazione crea il bisogno di maggiore accelerazione e, a livello collettivo, arriva a comportarsi come una droga che crea dipendenza in maniera non meno pericolosa di quanto l'uso di fonti energetiche Le città che ci aspettano (?) non rinnovabili crei inquinamento. Un progresso tecnologico all'infinito con la relativa crescita di velocità e consumi (quand'anche fossero disponibili risorse rinnovabili infinite) è incompatibile con un equilibrato progresso umano.

Inoltre, maggiore è il fabbisogno energetico, maggiore è il rischio che il controllo economico, sociale e politico venga accentrato nelle mani di un gruppo di tecnocrati. Una vera democrazia partecipativa, invece, richiede tecnologie a basso dispendio energetico ed una velocità di spostamento che un mezzo a pedali è  egregiamente in grado di fornire, rispetto ad uno a motore. Un uomo in bicicletta viaggia 3-4 volte più velocemente di uno a piedi, ma consuma 1/5 di energia.  Anzi la bicicletta è il mezzo in assoluto più efficiente rispetto a qualunque animale o macchina, senza per questo limitare il movimento altrui. Infine è  conveniente anche economicamente in fase d'acquisto/uso/manutenzione.
Significativo che l'articolo si apra con un aforisma di José Antonio Viera-Gallo, membro del governo di Salvador Allende: El socialismo puede llegar solo en bicicleta.

 

Sempre Illich sulla nostra schiavitù rispetto al mito della velocità ha scritto un rapido ma significativo saggio: "PRIGIONIERI DELLA VELOCITÀ" (reperibile all' indirizzo http://www.libertaria.it/articoli_online/prigionieri_velocita.htm).

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Sullo stesso autore si può leggere in rete un'altra recensione, nella quale si sottolinea lo stretto rapporto tra uomini di cultura e bicicletta, all'indirizzo http://www.locchiodiromolo.it/blog/?p=123

infine un illuminante corsivo di Michele Serra:

L'AMACA

Autorevoli studi dicono che la velocità media di spostamento, nelle nostre città, è uguale a quella del diciottesimo secolo: sette chilometri all’ora. L’idea di Progresso è così malconcia (quasi quanto l’idea di Politica) che non è il caso di maramaldeggiare. Anche perché, rispetto al Settecento, possiamo contare su qualche benefit non trascurabile: per esempio il numero delle malattie debellate o rese curabili, l’aumento smisurato della vita media, delle condizioni igieniche, perfino delle libertà individuali e collettive. Però, anche se messo al riparo dal pregiudizio antiprogressista, il dato rimane quello che è: la prova schiacciante di quanto sia controproducente, mefitico e ridicolo il traffico urbano, e quanto sia lenta e affannata la percezione politica della sua insopportabilità, della sua inciviltà, della sua obsolescenza. Se il fine è la velocità di spostamento, il traffico urbano è il classico caso in cui il fine non giustifica i mezzi. Tra qualche anno (spero non troppi), quando nei nostri centri urbani (come già ora nel Nord Europa) si potrà circolare solo con i trasporti pubblici o a piedi o in bicicletta o con scooter elettrici, diremo “ma ti ricordi quando milioni di auto private intasavano le città?” con lo stesso tono, lo stesso sgomento con il quale oggi diciamo “ma ti ricordi quando a cinema e a teatro si poteva fumare”?

Michele Serra

Da La Repubblica del 17/05/2012 

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