Deutschland über alles! 

Diario di viaggio 

dall'Italia alla Germania

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  Antefatto ·~     

1° giorno:  Castiglioncello - Borgotaro
2° giorno:  Borgotaro - Busnago
3° giorno:   Busnago - Pian San Giacomo
4° giorno:  Pian San Giacomo - Chur
5° giorno:   Chur - Konstanz
6° giorno:   Konstanz-Jettingen

 

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Antefatto

Tramontato, non senza rimpianti e auto-recriminazioni, il progetto del "viaggio di una vita" fino a Capo Nord, insieme a Paolo Pattoneri, ho cominciato a cercare una meta sicuramente meno ambiziosa, ma che non fosse una destinazione qualunque, un banale riempitivo. Nelle settimane seguenti, ho ricevuto una mail in cui un amico tedesco, Jürgen, mi invitava a partire per un viaggio in bici da casa sua fino a Dresda. Così, mentre da un lato seguivo l'avanzata di Paolo verso il Grande Nord, dall'altro cominciava a prendere corpo l'idea di partire per la Germania: in fondo sarebbe stata anche la rivincita su un altro viaggio mancato, quello del 2007 per Brema.

La proposta di J. consisteva in un viaggio in 5 tappe (di 130-140 km al giorno) con partenza da Tübingen, attraversando verso Oriente quasi tutta la Germania fino a Dresda, città vicino al confine con Repubblica Ceca o Polonia e splendidamente rinata dopo le distruzioni della guerra e il periodo difficile vissuto sotto il regime della DDR. L'unica mia perplessità derivava dal fatto che il periodo a cavallo di Luglio e Agosto è notoriamente caldo anche a quelle latitudini, ma non c'erano alternative, dato che quella è l'unica finestra temporale possibile per J. Della partita sarebbero stati anche Lothar e Jan due suoi amici della mia stessa età la cui compagnia avrebbe reso più piacevole il viaggio e consentito una riduzione dei costi.

Ho cominciato a documentarmi e a cercare informazioni sui passi appenninici e alpini da superare e sui possibili B&B, alberghi e ostelli in cui passare la notte. La prima bozza del viaggio prevedeva di percorrere la costiera tirrenica da Castiglioncello fino ad Aulla e poi, scavalcato l'Appennino, scegliere uno dei possibili itinerari per la Germania: puntare su Milano e provincia, raggiungere Chiasso e il San Gottardo (il passo, ovviamente, non il tunnel) e infine passando da Zurigo raggiungere Jettingen, casa di J. , presso Tübingen; oppure valicare le Alpi progressivamente più a est, dai passi del San Bernardino, dello Spluga o del Bernina. Dalle informazioni raccolte non è emersa una sostanziale differenza in kilometri o difficoltà tra i vari tracciati. A togliermi dall'indecisione sono intervenute due proposte: Paolo mi invitava a passare da Borgotaro e a fare la prima tappa a casa sua, da dove poi sarei ripartito l'indomani insieme a lui per una cinquantina di km; J. per parte sua proponeva di passare non da Zurigo, ma da Costanza, dove lo avrei incontrato per pedalare insieme gli ultimi 150 km fino a casa sua. L'idea di fare qualche pezzo di strada in compagnia è risultata vincente e mi ha spinto ad accettare entrambe le proposte e a elaborare quindi il tracciato definitivo del percorso Castiglioncello-Jettingen (pianificare la seconda parte del tour, Jettingen-Dresda, ovviamente, sarebbe stato compito di J.).

Ho suddiviso così l'itinerario in 5 tappe: 1) Castiglioncello -(passo del Brattello)- Borgotaro; 2) Borgotaro-Piacenza-Milano Nord; 3) MilanoNord-Chiasso-Bellinzona; 4) Bellinzona-passo San Bernardino-Chur; 5) Chur-S. Margrethen-Konstanz; 6) Konstanz-Jettingen.

Il passo successivo ha riguardato il reperimento delle strutture nelle quali pernottare: la sera della prima e ultima tappa avrei avuto la possibilità di essere ospitato dai due amici, a cui poi si è aggiunta la disponibilità di Lothar a trovarmi un alloggio a Konstanz, dove lui vive. Per le tappe 2, 3 e 4 avrei provveduto io tramite Internet.

La successiva fase dei preparativi ha riguardato la bicicletta: a parte i soliti controlli/sostituzioni di routine - camere d'aria e copertoni, mastice e toppe, cavi e tacchetti dei freni, etc.- le questioni importanti da affrontare erano due: cosa fare per affrontare le salite più impegnative (a cominciare dal valico delle Alpi) e come risolvere il problema del portapacchi e del peso dei bagagli. Nel primo caso la soluzione più ovvia sarebbe stata quella di sostituire le due moltipliche attuali (un 52 e 39 tutto sommato vecchiotte) con una tripla, il che avrebbe comportato anche altri interventi (a partire dal deragliatore) e si sarebbe rivelato piuttosto dispendioso, oppure scalare diversamente i pignoni, inserendo un 30 al posto dell'attuale 28, ma la forbice tra il più piccolo e il più grande diventava così troppo ampia; o ancora, ed è questa la soluzione che ho adottato alla fine, limitarsi a sostituire le due corone del movimento centrale con un 50 e un 34 di una compact; è un compromesso soddisfacente: rinunciando a un po' di velocità massima, si riesce ad accorciare ulteriormente lo spazio di pedalata in salita (il nuovo 34/28, che equivale a un 39/32, sviluppa 255 cm contro i 293 precedenti) e oltretutto con un costo accettabile. Più problematica è la seconda questione: il portapacchi posteriore è ancorato al telaio (che è sprovvisto degli appositi occhielli) per mezzo di fascette in gomma e metallo e tende a scivolare e a ondeggiare in corsa. Alla fine, dopo essermi consultato con il mio ciclista, opto per un leggero portapacchi a sbalzo (cioè da attaccare al cannotto della sella) a cui si adattano perfettamente le mie 2 borse di grandezza medio-piccola, sufficienti per portare il bagaglio minimo indispensabile per un viaggio di una decina di giorni d'estate.

A metà giugno la bici è sostanzialmente pronta; non così la preparazione fisica: la pigrizia, suffragata da un tempo straordinariamente piovoso fin quasi all'estate, mi ha impedito di non solo di allenarmi specificamente alle lunghe distanze, ma anche di mantenermi un minimo in forma; ma tutto sommato è la cosa che mi preoccupa di meno: non è una competizione quella a cui mi accingo e, come già in altre occasioni, so che la gamba me la farò man mano.

Intensi scambi di mail e sms con gli amici al di qua e al di là delle Alpi, assillo nei confronti dei familiari tempestati da mille richieste ansiogene, ritocchi conclusivi, preparazione dei bagagli, qualche uscita di prova, controlli frenetici dell'ultim'ora e finalmente, la terza domenica di Luglio, caricamento dei bagagli e ... p a r t e n z a !

 

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1 Castiglioncello-Borgotaro

Il tracciato stabilito sulla carta, almeno fino al confine tosco-ligure, è uguale a quello di altri viaggi; perciò non mi aspetto grandi novità nella parte iniziale; invece la partenza anticipata e il bel tempo (nel precedente viaggio da Livorno a Borgotaro mi era parso di essere un ciclista subacqueo: quasi 8 ore di pioggia fitta e ininterrotta) mi permettono di vedere e godere panorami non ancora guastati da afa e traffico. L’estate è avanzata, però le prolungate piogge primaverili e un Giugno tutto sommato soleggiato ma tutt’altro che torrido hanno consentito alla vegetazione di mantenere un vivace tono di verde senza ingiallire. Una leggera tramontana rende nitido il cielo ed evidenzia il profilo accidentato delle Apuane a Nord e quello più morbido degli Appennini un po’ più a Est. Andatura rilassata ma spedita, nell’aria frizzantina del mattino. Poi, inevitabili, i primi intoppi e le prime code di vacanzieri dalle parti di Viareggio, Massa e soprattutto Sarzana, ma è una bella giornata estiva, oltretutto di domenica, ed è comprensibile che un buon numero di persone si sposti verso località di villeggiatura e lo spirito lieve con cui ho intrapreso il viaggio mi spinge ad essere un ciclista meno talebano e intollerante del solito nei confronti degli automobilisti. D’altra parte sono costretto a rallentare anche perché la strada, man mano che mi allontano dalla costa, inizia a salire. 

Seguendo il fiume Magra, dopo Aulla e S. Stefano Magra, raggiungo Villafranca in Lunigiana, sede tra l’altro di un interessante Museo Etnografico, e qui mi imbatto casualmente in un cartello che indica il l’antico tracciato della via Francigena, la quale, scendendo dai rilievi della Cisa, entrava nell’attuale centro storico di Villafranca attraverso una stradina ed un ponte ora solo pedonali, per poi proseguire in direzione di Aulla e Sarzana; ma in realtà più che di un’unica via sarebbe corretto parlare di un fascio di percorsi più o meno alternativi e paralleli che collegavano tra loro le tappe più importanti. Il richiamo alla Francigena e agli avventurosi pellegrinaggi medioevali mi pare di buon auspicio per il viaggio che ho appena iniziato e mi riporta alla mia sofferta esperienza di “bicigrino” di due anni fa, da Livorno a Santiago de Compostela. Quasi a conferma di ciò, poco dopo, all’altezza di Filattiera, una bella chiesa romanica si materializza sul lato destro della strada: è la pieve di Santo Stefano di Sorano citata da Sigerico nel suo storico viaggio da Canterbury a Roma a ridosso del 1000. Ne approfitto per concedermi una pausa e visitarla (il richiamo dell’ombra e del riposo, lo confesso, è probabilmente superiore a quello dell’arte e della storia). L’edificio, restaurato di recente, ha il classico aspetto sobrio e severo delle pievi romaniche: una navata centrale e due più piccole laterali, di cui quella destra mi pare la meno rimaneggiata; le finestre alte e piccole e la mole del campanile, simile a una solida torre medioevale, fanno pensare che oltre a quello religioso assolvessero anche compito di difesa, come è frequente nelle chiese dell’alto medioevo (mi vengono in mente le finestre dai pesanti battenti in pietra della chiesa di Torcello, nella Laguna di Venezia).

Fa ormai decisamente caldo quando raggiungo Pontremoli; mi fermo perciò a fare rifornimento d’acqua e a mangiare un boccone al solito bar, dove già ho avuto modo di sostare in altre due occasioni: nel 2000 al tempo della mia prima esperienza di viaggio in bici con Alberto e pochi mesi fa, quando raggiunsi Borgotaro per discutere con Paolo Pattoneri del viaggio che avremmo dovuto fare insieme a Capo Nord. In entrambi i casi il tempo fu inclemente, per non dire pessimo, ed ero entrato nel bar lasciandomi dietro una scia d’acqua; stavolta la situazione meteo è molto migliore, ma è ugualmente una scia quella che mi porto dietro, solo che stavolta è sudore.

Dopo un km circa lascio la SS.62 e prendo a sinistra per il passo del Battello, che mi porterà di scavalcare l’Appennino e scendere in Emilia, a Borgotaro, passando appunto dalla valle del Magra a quella del Taro. Il sole picchia forte nell’aria tersa, ma la strada, anche se si inerpica decisa, è gradevole per la presenza di frequenti curve e zone d’ombra. Subito dopo il valico, dove mi fermo il minimo indispensabile per una foto e un succo di frutta, data la presenza di decine di rombanti centauri, trovo Paolo, che mi è venuto incontro in bici, appena smontato dal lavoro. Durante il suo incredibile viaggio solitario a Capo Nord (a cui purtroppo io avevo poi dovuto rinunciare a causa di qualche acciacco fisico e morale), lo avevo soprannominato “Patton, generale d’acciaio” per la tenacia con cui portava avanti la sua difficile impresa e, in effetti, vederlo così asciutto, in forma e determinato non fa che confermare il soprannome. Affrontiamo insieme la discesa, una dozzina di km con curve e pendenze a tratti di tutto rispetto; ho così modo di testare la tenuta del nuovo portabagagli a sbalzo, che non si è mosso di un millimetro.

A casa sua dove mi ospiterà al termine di questa mia prima tappa, mi racconta dei momenti più duri e di quelli più entusiasmanti vissuti nel suo percorso di oltre 4.000 km, ma anche degli incontri che ha avuto modo di fare: spesso strani, a volte incredibili, ma sempre pervasi da un forte senso di umanità, indipendentemente da latitudine, nazionalità, credo religioso delle persone conosciute. A sfatare qualunque pregiudizio o stereotipo, sono risultate straordinarie la disponibilità e la generosità, sempre spontanee, discrete e mai ostentate, di persone del centro e del nord-Europa, che di solito noi “Latini” etichettiamo come fredde, indifferenti o poco sensibili: persone che si fermano a chiederti se ti serve aiuto o informazioni, perché ti hanno visto incerto ad un incrocio, o che deviano di 10 km per portarti ad un’officina, o che mandano il figlio a cercare per te un ufficio postale, o che ti invitano a cena o a dormire a casa loro. Anche queste scoperte (o meglio conferme) sono il gradito dono che ci offrono i viaggi “lenti” quali sono quelli in bicicletta o a piedi, tanto diversi da quelli del turismo motorizzato, di massa, stile “mordi e fuggi”.

È significativo, poi, che forse proprio lontano da casa e da persone della stessa nazionalità si possa sentire nell’altro che si incontra un “connazionale”, un tuo simile, nel senso nobile che Einstein dette quando alla domanda di che razza fosse, rispose semplicemente: “Umana”. Passiamo buona parte della sera a parlare di questo, incuranti del fatto che domattina dovremo alzarci piuttosto presto: Paolo infatti, a mo’ di viatico, ha deciso di pedalare con me almeno fino a Fidenza, ricambiando così la compagnia che gli feci io per i primi 30 km del suo viaggio. Ci salutiamo, infine dandoci appuntamento per domattina; vado a dormire stanco sì, ma di una stanchezza sana, che invita al sonno, e soprattutto soddisfatto di questa prima giornata di viaggio e della chiacchierata che l’ha conclusa.

Percorsi oggi 181 km in 7h:51’

 

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2 Borgotaro-Busnago

Al risveglio, mi attende la sorpresa: sfuma il progetto di Paolo di accompagnarmi: lo hanno richiamato con urgenza sul lavoro per un problema che solo lui è in grado di risolvere. Parto perciò da solo, di buon’ora alla volta della famigerata via Emilia, seguendo le scorciatoie indicate da Paolo. Oggi dovrebbe essere una tappa più riposante di quella di ieri, anche se forse un po’ meno varia: per 150 km circa, fino alle soglie di Milano, è tutta pianura. 

Fino a Fornovo e da qui a Medesano e Fidenza, il percorso scorre veloce, poi –come prevedibile- afa e traffico prendono il sopravvento; la prima non può essere evitata, ma il secondo sì: basterebbe abbandonare la via Emilia e affidarsi alla rete di strade secondarie che in qualche modo le si affiancano; però il timore di allungare troppo il percorso e di conseguenza i tempi che mi sono prefisso mi condannano a restare sulla SS.9.

Ad Alseno, prima di Fiorenzuola, un cartello attrae la mia attenzione: “Abbazia di Chiaravalle”. Si impone una deviazione e una visita, magari rapida, alla celebre abbazia cistercense legata in eterno alla figura di san di Bernardo: mica posso offenderlo con un rifiuto, tanto più il giorno prima di affrontare il passo alpino del suo quasi omonimo san Bernardino! In realtà il caldo e la fatica hanno ottenebrato i miei neuroni, i quali non mi avvertono in tempo che la celebrata Abbazia di Chiaravalle si trova più a Nord, in provincia di Milano, non di Piacenza. Mi rendo conto dell’errore solo davanti alla facciata della chiesa, per l’assenza della famosa Ciribiciaccola, la torre dell’abbazia milanese. Questa è invece l’abbazia di Chiaravalle della Colomba, peraltro anch’essa fondata dal medesimo santo benedettino negli stessi anni. Dall’esterno appare suggestiva e con ogni probabilità varrebbe ugualmente una visita all’interno, ma è inesorabilmente chiusa, per cui, scattata una foto consolatoria, non mi resta che tornare al mio percorso "tra la via Emilia e il West" (anzi il Far West del traffico). Prima però approfitto di uno spiazzo con panchina, ombra e fontanella, per consumare un frugale pasto, che interrompo più volte per fotografare, senza farmi vedere, un vistoso omone con tanto di turbante e folta barba (di sicuro uno dei tanti lavoratori indiani immigrati in Padania a lavorare nel settore dell’allevamento). Neanche questo tentativo però va a buon fine, per cui non mi resta che riprendere la marcia verso Nord con la consapevolezza di aver perso almeno un’ora. E questo ritardo comporterà anche la definitiva rinuncia alla cistercense Chiaravalle milanese.

Il rumore assolutamente incessante dei veicoli e le zaffate degli scarichi di tanti diesel o dei motori mal carburati, il pericolo rappresentato dai troppi automezzi pesanti che sembrano divertirsi a piombarti alle spalle e restare minacciosamente attaccati alla tua ruota posteriore oppure a sorpassarti a tutta velocità a pochi cm di distanza (in un paio di casi arrivano a sfiorarmi lo specchietto retrovisore del manubrio), oltretutto incuranti dello spostamento d’aria che provocano, per non parlare del continuo stop and go dovuti a semafori, code o lavori in corso, risultano spossanti e mi costringono a frequenti soste “rigeneratrici”. Mentre i primi 100 km sono quasi volati, i successivi 40 si rivelano pesantissimi. Dopo un’ultima sosta, sdraiato all’ombra di un cespuglio in un giardino pubblico, decido finalmente di cambiare percorso: non seguirò l’Emilia fino a Milano (avevo preventivato di dormire dalle parti di S. Donato Milanese), ma cercherò un itinerario che aggiri la metropoli più a Est.

A Piacenza, intanto, la ricerca di un bar dove prendere un caffè e un succo di frutta mi porta nel locale di un cinese che ha qualche difficoltà a parlare in italiano, ma è gentilissimo e prodigo di consigli che non sempre capisco. Capisco fin troppo bene, invece, un avventore che, non richiesto e nonostante io sia con tutta evidenza ansioso di rimontare in sella, attacca una filippica sui presenti mali dell’Italia e sull’unico possibile rimedio: affidare il Paese ad amministratori … cinesi, i quali hanno già dimostrato in patria di saper fare prosperare la propria economia esportando i loro prodotti in tutto il mondo e di saper governare un popolo di 1,3 miliardi di persone. Le mie perplessità su questioni banali come il rispetto dei diritti civili, delle basilari norme della sicurezza sul lavoro, la qualità dei prodotti etc. non smuovono le sue granitiche certezze. Riesco a in qualche modo a liberarmi e raggiungo il ponte sul Po finalmente ripristinato e dotato anche di una ciclabile.

A Lodi inizia l’avventura del percorso alternativo alla via Emilia. Tre gruppi di persone si prodigano a suggerirmi l’ itinerario migliore per aggirare Milano e raggiungere Como, ma la scarsa attitudine a memorizzare tutti i “…svolta alla seconda a destra, poi prendi la terza a sinistra…”, complice anche un caldo appiccicoso scirocco, mi fanno perdere km e minuti preziosi. Sono due nordafricani, strano a dirsi, quelli che con la massima naturalezza mi forniscono le indicazioni più chiare sulla strada da fare (forse perché è l’unica che conoscono); in ogni caso questo incontro (dopo l’indiano e il cinese) mi dà la conferma di quanto la nostra società stia diventando multietnica.

In qualche modo arrivo all’Adda e zigzagando tra paesini resi silenziosi e quasi disabitati dalla canicola pomeridiana, riesco a raggiungere Rivolta d’Adda; qui mi fermo col pretesto di scattare una foto alla romanica Chiesa di San Sigismondo, quasi a nascondere a me stesso che questa tappa si sta trasformando in una fuga dal caldo e dai tubi di scappamento. Così è stato – e mi duole doverlo ammettere – per l’abbazia di Chiaravalle, che tante volte ho immaginato di andare a visitar appositamente e che oggi mi sono limitato a sfiorare superficialmente, attratto più dalla possibilità di una pausa e di un po’ d’ombra che da un reale interesse artistico. Ma la vera ambiguità consiste nel fatto che ogni mio cicloviaggio, tanto più se in solitaria, tende a essere un conflittuale compromesso tra aspirazione contemplativa e smania di arrivare, tra desiderio di osservare, ascoltare, gustare e inconfessata urgenza di dimostrare di essere ancora in grado di percorrere 200 km o più senza fatica come venti anni fa, insomma tra bisogno di assecondare il tempo nella sua seducente lentezza e di vincerlo nella sua implacabile rapidità.

Da Rivolta d’Adda seguendo il fiume, che però vedo solo poche volte in occasione di qualche attraversamento, raggiungo Trezzo e qui, finalmente, punto a Ovest in direzione di Vimercate, nella speranza di trovarmi ormai a Nord-Est di Milano abbastanza da evitare il traffico della metropoli e della sua smisurata periferia. Questa interminabile serpeggiante marcia di avvicinamento alle Alpi mi è costata almeno una trentina di km (anche oggi ho già superato i 180 km) e un paio d’ore in più, per non parlare dello stress: anche se non mi sento fisicamente stremato, mi rendo conto che è l’ora di fermarsi, tanto più che il tardo pomeriggio sta sfumando nella sera.

Dopo qualche trepidazione e una mezz’ora di infruttuosi tentativi di scovare un Bed & Breakfast, la ricerca di un alloggio si conclude a Busnago, dove si trova l’unica struttura della zona, l’Hotel “Pianura Inn”, peraltro sconsigliatomi dagli abitanti del luogo, che lo ritengono “troppo caro” per me, come mi dicono con quasi affettuosa sollecitudine. Effettivamente, compiuto un rapido check-in del mio aspetto trasandato (indumenti stropicciati chiazzati di sudore e di acqua con cui ho bagnato continuamente i capelli per rinfrescarmi), non posso dar loro torto se mi hanno considerato poco più che uno straccione. Ma, in realtà, il prezzo dell’albergo (una singola con frigo e TV a 64 €, comprensivi, oltre alla colazione di domattina, anche di una cena di buona qualità e soprattutto di aria condizionata e della possibilità di portarmi in camera la bici) è più che accettabile; e poi il poter pagare con carta di credito, anziché in contanti, non mi dà l’impressione di spendere.

Percorsi oggi 188 km in 7h:49’

 

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3 Busnago-Pian San Giacomo

Risveglio anticipato, ma non altrettanto la partenza, soprattutto a causa dei bagagli che si rivelano ogni volta un nuovo puzzle a incastro difficile da risolvere.

Sulla via per Vimercate il traffico è già intenso alle 8.30, ma la strada è abbastanza ampia e scorrevole, nonostante qualche deviazione per lavori in corso. Il paesaggio, tuttavia, non è un granché: classica, interminabile periferia industriale di un’area metropolitana, con capannoni, alternati a condominii, centri commerciali o villette con giardinetti (e, immancabili, orribili nanetti). Anzi, passando davanti al cartello “ARCORE”, mi chiedo come sia possibile che un certo Cav, laureato alla Sorbona, cultore di Erasmo da Rotterdam, proposto dai suoi fan come Nobel per la pace, amante di personali mausolei e vulcani stile Mirabilandia, si sia “abbassato” ad abitare in una zona ordinaria come questa; poi mi sovviene che villa Certosa (per non parlare delle altre sue nobili dimore) non è certo una banale villetta a schiera che dà sullo stradone che io sto percorrendo. Resisto alla tentazione di auto-fotografarmi col cartello sullo sfondo in qualche posa irriverente, solo perché così mi sembrerebbe di dare a un così signorile personaggio più lustro di quanto non meriti.

Vorrei evitare la strada per Como che passa da Cantù, che mi hanno descritto come assai frequentata e con salite di cui oggi non sento proprio il bisogno. Perciò chiedo a più riprese consigli sul miglior itinerario: ogni volta una risposta diversa e ogni volta e ogni volta mi faccio convincere dall’ultimo suggerimento. Inoltre i toponimi, così spesso terminanti in –ate, finiscono col confondermi. Finisce così che percorro un bel po’ di km in più, non disdegnando qualche salitella fuori programma, finché presso un cantiere edile un signore, probabilmente il proprietario o l’ingegnere che sovrintende ai lavori, dopo avermi vivamente sconsigliato la “Comasina” o la via per Cantù, mi indirizza sulla strada in direzione Lecco, da cui dopo qualche km deviare per Como. Accetto, anche se poco convinto, ma in effetti la scelta risulta azzeccata: il percorso non è particolarmente battuto, né monotono e soprattutto è spesso ombreggiato. 15 km dopo, mentre sono fermo in dubbio tra le due possibilità di un bivio, vengo raggiunto dallo stesso signore, che salito in bici da corsa ha voluto sincerarsi che io non sbagliassi strada; non solo, mi accompagna anche per un tratto fino al bivio tra Lecco e Como. La sua disponibilità mi fa tornare in mente gli esempi di gentilezza citati ieri sera da Paolo, a conferma del fatto che le persone sensibili e premurose esistono ovunque ed in un viaggio “lento” è più facile incontrarle.

In prossimità di Como affronto una discreta salita seguita da una ripida discesa verso la città e il suo lago, che mi si apre davanti all’improvviso in tutta la sua bellezza, già dopo poche centinaia di metri. Anche il centro di Como risulta gradevole, pulito e vivace, senza mai essere caotico, come a volte certe città di frontiera o località di villeggiatura. Verso Cernobbio vorrei raggiungere la frontiera godendomi il lungolago, ma un carabiniere mi dice che non è possibile e mi dirotta su una stradina in ripida salita che dopo un bel po’ di km e sudore mi fa raggiungere un colle da cui ridiscendo finalmente verso Chiasso per scoprire che la via del lungolago era praticabilissima, oltre che più agevole.

Telefonate d’obbligo, e di piacere, a moglie (che per un lungo mese ha ascoltato, sopportato, cercato, trovato, rammendato, ritrovato, preparato, riritrovato…), figlie (che si sono occupate del supporto psicologico, sanitario, logistico), cane (che ha quasi smesso di mangiare da quando sono partito e va alla ciotola solo se glielo chiedo per telefono), amici (supporters e compagni di viaggio reali, possibili e impossibili).

Senza particolari emozioni oltrepasso, per la prima volta in bici, la frontiera italo-elvetica. Nessuna guardia confinaria pensa a fermarmi (e sì che qualche perplessità su questo straniero sbrindellato sarebbe anche legittima), né io vado in cerca di un ufficio cambi: perfettamente istruito dalle donne di casa sulla piena accettabilità sia degli euro che della mia carta di credito, foss’anche per pagare un cappuccino, tiro dritto in direzione Mendrisio senza particolari problemi anche quando la strada comincia a salire: certo in alcuni tratti la pendenza si fa sentire e il sole vivo punge le gambe e gli avambracci, ma collo e torso sono coperti (dopo le scottature del viaggio a Santiago ho imparato la lezione e da quando sono partito non ho quasi mai tolto la mia canottiera ultralight antisudore, nelle ore centrali della giornata) e i frequenti cambi di direzione ad ogni curva alternano le parti esposte al sole. Del resto l’ascesa non è nemmeno troppo lunga e raggiunto il culmine, a meno di 400 m. slm, inizia una piacevole discesa verso il lago di Lugano, a velocità sostenuta, ma non eccessiva, perché voglio godermi il panorama. In effetti il quadro che mi si presenta già prima di raggiungere il bordo del lago è stupendo, di quelli che riduttivamente si definiscono da cartolina, se non fosse che le immagini delle cartoline sono banali copie oltretutto parziali, mentre quello che ho davanti è l’originale a quasi 360°. Lo scenario in realtà non differisce molto da quello di una delle belle e curate località delle Alpi o Prealpi italiane e se uno non sapesse dove si trova potrebbe credere di godere uno scorcio del lago di Como; del resto mi trovo ancora sul versante meridionale delle Alpi ed è dovuto a motivazioni storiche e non geografiche se questo lembo di territorio appartiene politicamente alla Confederazione Elvetica anziché all’Italia, come invece il tratto che da Chiavenna porta al passo dello Spluga; la stessa lingua parlata e scritta qui è quella italiana ed è più facile trovare i nomi delle strade o dei paesi con scritta bilingue nella sedicente Padania che non qui.

Costeggio il lago, scattando frequenti foto, in gran parte senza smettere di pedalare (col risultato prevedibile di ottenerne un bel po’ sfocate, storte o fuori centro) e oltrepassato Bissone, percorro il lungo ponte che mi conduce a Melide, parallelamente alla linea ferroviaria e all’autostrada. Alle spalle del paese scure colline si ergono quasi a strapiombo per qualche centinaio di metri e intravedendo strade e autostrada salire fin lassù, mi prende lo sgomento di dover anch’io arrampicarmi a quell’altezza, poi ricordo che ci sarà sì una salita piuttosto dura prima di arrivare a Bellinzona, ma comincerà solo dopo aver raggiunto Lugano. Per sanzionare la mia dabbenaggine mi concedo un autoscatto accanto a un cartello che indica “oggi giornata del pollo”.

Proseguo lungo il lago e mentre sul lato destro sfila la piccola enclave italiana di Campione, davanti l’orizzonte si allarga man mano aprendosi al bel promontorio di Castagnola e al tratto nordorientale del lago che rientra in Italia verso Porlezza; il tutto in una splendida cornice verde-azzurra a seconda delle diverse tonalità delle acque, delle colline sovrastanti e del cielo. Finalmente, dopo un’ultima curva, appare lo skyline della città con i suoi bianchi palazzi che specchiandosi nell’acqua mi ricordano le immagini di Lucerna o Montecarlo rimaste impresse nella memoria dei miei viaggi da bambino. Da Riva Paradiso raggiungo la città e scelgo per la sosta un piccolo Eden: una panchina in un piccolo parco sulla riva tra aiuole stracolme di fiori curate quanto pulite (siamo in Svizzera, perbacco!) e davanti a un getto d’acqua che nasce dal lago, vicino alla riva, innalzandosi di parecchi metri prima ricadere verticalmente a spruzzare un gruppetto di germani reali. Di solito, vivo il momento dei pasti tanto più in un luogo pubblico o in occasioni simili a questa, come un momento privato e per una sorta di pudore cerco di dare nell’occhio meno possibile, mangiando in fretta e quasi di nascosto; ma stavolta la vista di altri ciclisti, locali o di passaggio come me, che sbocconcellano un panino godendosi l’ombra o la vista del lago e dei fiori, mi toglie ogni sorta di ritrosia e mi invita ad assaporare in tutta tranquillità il mio modesto lunch e il fresco venticello che proviene dal lago.

Rinfrancato e sollecitato solo dal timore di indugiare troppo a lungo in vista della scalata al S. Bernardino, riparto seguendo le indicazioni stradali per Bellinzona: a neanche 200 m. dal lungolago la strada mi avvisa subito che la musica è cambiata e ci sarà da soffrire: una prima salita davvero tosta e poi una serie di saliscendi mi avvertono che ora si comincia a fare sul serio. Il pezzo più duro, però è quello che mi porta verso il passo di Monteceneri (600 m. circa), in cui al caldo si associa la mancanza d’acqua di cui ho dimenticato di rifornirmi a Lugano. Inutilmente ne cerco per strada e mi sembra un paradosso in un Paese così ricco di acque come la Svizzera. Poi ad un certo punto ho una folgorazione: un cartello annunzia un’area di sosta a un centinaio di metri; oltretutto l’area è denominata S. Francesco e -non bastasse il nome- al suo ingresso un’iscrizione riporta il distico del Cantico delle Creature dedicato a “nostra sorella Acqua”. Tanto più cocente è la delusione, quando, raggiunta la fontana, devo constatare che di acqua non c’è nemmeno l’ombra. In un bagno di sudore arrivo finalmente al passo di Monteceneri e approfitto della presenza di un distributore per inzupparmi d’acqua dentro e fuori, prima di affrontare una discesa mozzafiato che mette a dura prova i freni e la mia attenzione.

Come Lugano mi era parsa gradevole e caratteristica, così Bellinzona mi sembra anonima e deludente, complice forse anche il gran caldo dovuto al crescente Föhn (chissà se il nome è imparentato col vocabolo dialettale salentino “faugna” che, ricordo d’infanzia, si riferiva al caldo umido appiccicoso dei pomeriggi d’agosto) che scende dai monti in direzione apparentemente contraria alla mia, facendomi sudare ancora di più. Ma forse è meglio non tranciare giudizi, dato che di Bellinzona sto sicuramente attraversando la periferia, non certo la parte più bella e significativa della città. Comunque non vedo l’ora di lasciarmela alle spalle, anche per avvicinarmi il più possibile al san Bernardino, che è il tratto più alto e impegnativo di tutto il viaggio. Ho infatti pianificato l’itinerario in modo da affrontare questo passo di oltre 2.000 m. a cavallo di due giornate; questo ha comportato due tappe piuttosto lunghe e faticose all’inizio, ma mi permetterà di spezzare in due la scalata, dormendo a circa metà salita e affrontando la mattina seguente il troncone finale. Una volta sceso dal san Bernardino, il più sarà fatto e sia pure con i soliti prevedibili saliscendi, avrò due tappe più leggere e corte prima di arrivare a Konstanz, ovvero Costanza, la prima città tedesca, sull’omonimo lago; qui, altra sosta obbligata, al mattino del sesto e ultimo giorno, mi attenderà l’amico Jürgen, che mi guiderà per il tratto terminale fino a casa sua, a Jettingen, presso Tubinga.

A Lumino, pochi km da Bellinzona, dopo il bivio che costringe a scegliere tra il passo del san Gottardo e quello di san Bernardino (ed in effetti anch’io sono stato a lungo incerto su quale dei due indirizzare la mia scelta), trovo uno spiazzo con una fonte in pietra, che eroga acqua freschissima, e con un sedile sotto un albero, che invita al riposo. Non è certo la prima sosta che mi concedo in questo viaggio, ma il pensiero che solo tre giorni fa ero in Toscana, stamani presso Milano ed adesso nel cuore (insomma…) della Svizzera, mi hanno reso ottimista circa i tempi e le mie possibilità.

Riparto dopo un’ora abbondante, ma pago il fatto che, se il vento è ora diminuito (e comunque pure io ho cambiato direzione), in compenso il caldo afoso è aumentato e il cielo, fattosi plumbeo diffonde il caratteristico odore di ozono che precede la pioggia. Che infatti non tarda ad arrivare. D’altra parte d’estate e a ridosso delle montagne è cosa ben prevedibile. Non è una pioggia violenta, bensì intermittente e fastidiosa, specie ora che inizia la salita, perché costringe a frequenti soste per infilare e togliere la mantellina, col risultato che alla fine sono ugualmente umido d’acqua e di sudore.

A Lo Stallo è segnalato un albergo, ma non è qui che ho deciso di fermarmi: è una quota ancora troppo bassa e preferisco salire ancora un bel po’, per ritrovarmi domani il dislivello minore possibile da superare.

Continuo così in direzione di Soazza, mentre la pioggia si intensifica e la pendenza si inasprisce, a differenza di un grafico scaricato da Internet che riportava un dislivello minimo. Al bivio da cui parte la deviazione per il paese, un cartello ammonisce che là non c’è possibilità di alloggio, ma la cosa non mi preoccupa, perché la mia meta è più in alto, a Mesocco, dove Internet (peraltro a fatica, perché riportato dal solo Google) mi ha scovato un B&B il “Garmi”.

Maledicendo le inesattezze dei grafici altimetrici, che riportano tra Soazza e Mesocco una pendenza media del 5-6%, mentre invece in almeno un tratto ho la sensazione di affrontare più del 10%, finalmente, a pomeriggio avanzato e sempre più stanco, raggiungo Mesocco a circa 800 m. Il paesino è in ripida salita; all’inizio in uno spiazzo c’è una corriera in sosta, ma io tiro dritto verso l’alto, in cerca del “Garmi”, ma del B&B nessuna traccia e, se è per quello, nemmeno dei paesani: sembra un villaggio abbandonato. Finalmente, all’estremità opposta di Mesocco, 500 m. più in alto, trovo un gruppo di donne che mi spiega che il B&B non esiste più da un pezzo e che le uniche strutture ricettive si trovano al villaggio di san Bernardino, distante “solo” una decina di km, come se invece di due gambe striminzite e sfinite io avessi i quattro cilindri di una Enduro. Provo a spiegare che i km sono 16 e di salita dura che io non mi sento proprio di affrontare; l’unica soluzione che mi prospettano, allora, è quella di raggiungere il villaggio per mezzo di una delle tante corriere che partono dal piazzale all’inizio del paese. La proposta contrasta col sacrosanto principio di non utilizzare mai mezzi a motore nei miei ciclo-viaggi, ma è un’emergenza e non è il caso di fare gli schizzinosi. Vorrei scendere giù alla fermata a prendere la prima corriera possibile, ma le donne insistono perché aspetti che prima cerchino l’orario, poi un paio di occhiali per leggerlo, infine per decifrarlo, dato che evidentemente non sanno il tedesco. Nel frattempo si aggrega a noi una coppia di trekker di mezz’età, probabilmente tedeschi, anch’essi in cerca di alloggio e pure a loro viene spiegata la questione. Alla fine riusciamo a sganciarci e a piedi ridiscendiamo tutti e tre i 500 m. fino al piazzale, solo per accorgerci che nel frattempo la corriera è partita e che era l’ultima, salvo una che alle 23.30 passerà da qui ma per tornare a Bellinzona. Costernazione generale. A questo punto l’unica possibilità per me è quella di provare a raggiungere prima di notte Pian San Giacomo, dove Internet maledetto (ma dovrei maledire la mia superficialità per non aver controllato a suo tempo) mi dava un ristorante con possibilità di pernotto. Salutati i due stranieri, ancora indecisi sul da farsi, pedalata dopo pedalata mi spingo fino al punto da cui sono incautamente disceso 10 minuti fa, ritrovo il gruppetto di donne che mi hanno fatto perdere la corriera e ora fanno ciao-ciao con la manina e proseguo, mentre la pioggia mi dà un po’ di tregua e comincia a imbrunire.

C’è molta umidità, ma nonostante l’altitudine, non fa freddo, o per lo meno la fatica non me lo fa sentire. Benedico la scelta, fatta prima di partire, di montare una moltiplica “compact” 50-34, prima di partire, proprio per affrontare le Alpi coi bagagli; ma ho già impostato il rapporto più agile e sento che non mi basta. In determinate condizioni 5 km possono essere lunghissimi e più di una volta sento la tentazione di scendere e spingere a piedi, ma lo rimando sempre “al prossimo tornante”, sapendo che se lo faccio una volta, sarò portato a ripeterlo; perciò tengo duro, ripetendo il motto del mio amico Paolo “Mai mollare”.

Ricomincia a piovigginare e la velocità oscilla tra i 7 e i 10 km/h ed è buio quando finalmente la pendenza si ammorbidisce e raggiungo Pian San Giacomo. Ma il presunto villaggio esiste solo sulla carta: trovo solo una casa con una finestra illuminata, però è privata; provo a chiamare, nessuno risponde. Proseguo scoraggiato per altri 200 m. e finalmente vedo un ristorante con le luci accese e delle auto parcheggiate davanti. Sono salvo! Mi precipito dentro così come sono, scarmigliato, sudato, con casco e canottiera e chiedo: <<C’è una camera libera, vero?>> <<No, mi dispiace.>> è la raggelante risposta; allora, senza nemmeno bisogno di fingere, assumo l’espressione più sconsolata e demoralizzata possibile, implorando a voce bassa: <<Nemmeno una stanzetta, un locale ripostiglio, un sottoscala…?>> <<Purtroppo qui non c’è proprio posto. Bisogna che arrivi al Villaggio.>><<Ma sono 9 km di salita e poi pioviggina e fa buio… Non avete nemmeno un capanno per gli attrezzi?>> Il gestore e la madre si guardano negli occhi e poi: <<Be’, veramente ci sarebbe una stanza di sgombero, dove a volte ci riposiamo il pomeriggio, però non è adatta e non…>> <<No, no! Va benissimo.>> interrompo io prima che ci ripensino.

Mezz’ora dopo, lavato e rivestito, sono davanti a un vassoio di almeno tre etti di spaghetti fumanti letteralmente annegati in un ottimo sugo al pomodoro e accompagnati da un bicchiere di vino e pane in abbondanza. Spolvero tutto con evidente voracità e quando vedo che stanno aspettando solo me per chiudere, mi alzo e vado a pagare. Incredibile! Non vogliono nulla per la stanza e chiedono solo 10 franchi per la cena, regalandomi anche una bottiglia d’acqua minerale, nel caso mi venisse sete di notte.

Confortato da tale prova di generosità, torno in camera mia con un calore dentro che non è dovuto solo agli spaghetti; quindi lavati i panni, li stendo come posso vicino alla finestra da cui filtra a raffiche il vento, riordino le mie cose sparse caoticamente sul letto e supplisco alla mancanza di lenzuola, sistemandomi alla meglio tra due coperte. Infine spengo la luce e sprofondo in un sonno di piombo.

Percorsi oggi 156 km in 6h:35’

 

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4 Pian San Giacomo-Chur

Appena sveglio, mi affaccio alla finestra e ho la bella sorpresa di vedere un cielo sereno che inonda di luce prati e pendii; il vento, oltre a spazzare via le nubi, ha asciugato anche la strada. Perfino i miei panni sembrano asciutti e stirati. Preparo i bagagli e faccio allegramente colazione con quel poco che mi è avanzato da ieri, sperando di non rimanere senza carburante negli ultimi metri di salita; infine parto dispiaciuto di non poter salutare e ringraziare nuovamente nessuno, visto che il ristorante è ancora chiuso.

Anche se mi sento carico di energia ed entusiasmo, saggiamente utilizzo le mie forze con parsimonia e cerco di individuare un ritmo costante di pedalata, senza tentare inutili accelerazioni quando la pendenza viene addolcita da qualche tornante o avvallamento. Mi fermo anche qua e là a scattare foto: il panorama lo merita davvero, pur se le mie scelte risultano in ritardo o in anticipo di qualche centinaio di metri rispetto all’inquadratura migliore. Anche questo, comunque, aiuta a minimizzare la fatica, che non è poca. Dopo un iniziale km di quasi pianura, infatti, la strada si è subito impennata e sale a una pendenza media del 7-8%

Qualche macchina, ma soprattutto tanti motociclisti in tuta nera, da soli, in coppia o ,più spesso, in gruppi rombanti, mi sorpassano di slancio e qualcuno mi suona o mi rivolge un cenno di mano a mo’ di incoraggiamento (visto che una volta tanto sto ben attento a restare incollato al lato destro della strada che è tutt’altro che larga.

Dopo 7 km la salita si interrompe e si scende in un paio di km fino al Villaggio di San Bernardino, un agglomerato di case con qualche negozio di souvenir, di abbigliamento o di articoli sportivi, un minimarket e alcuni ristoranti e bar. In uno di questi mi fiondo io per completare a suon di cappuccini e croissants la mia magra colazione di stamani. Poi, attraversata la piazza del paese, assordata dal frastuono di un torrente impetuoso che le scorre a lato, riparto affrontando subito in salita l’ultimo tratto che mi porterà al passo dopo altri 7 km, pedalata dopo pedalata, tornante dopo tornante.

Anche se il peso delle salmerie si fa sentire e maledico le tante cose probabilmente inutili presenti nel mio bagaglio (ma che al prossimo viaggio sarò comunque incapace di depennare), la salita non è impossibile; basta tenere un ritmo costante e guardare il panorama, invece del contakm.

Il sole della prima mattina, intanto, è stato oscurato dalle nubi e ogni tanto cade qualche goccia di pioggia, ma la temperatura resta gradevolmente tiepida.

Sul mio orologio consulto l’altimetro, che però non è molto affidabile, dato che non ne ho potuto controllare l’esattezza prima della salita. Quando segna 1970 m. ecco che intravedo gruppetti di persone fermi su uno sperone di roccia a scattare foto ricordo; la cosa mi rincuora come ebbe a rincuorare Colombo quando avvistò stormi di uccelli poco prima di raggiungere la meta. E infatti, superato lo sperone con un ultimo sforzo, ecco che all’improvviso si presenta una vista inaspettata: un laghetto si stende per lungo, parallelamente alla strada che, rimanendo in piano, dopo 500 m. raggiunge il passo. Questo è contrassegnato da un cartello (che riporta nome e quota del passo: foto obbligatoria se si ha la pazienza di mettersi in fila a fare la coda) e da un tozzo e trascurato edificio, l’unico prima della discesa: è il cosiddetto Ospizio che sembra più che altro consistere in un minibar acchiappa-turisti. Prima di ripartire, rincontro qui i due camminatori che mi salutano cordialmente (la cordialità è reciproca e genuina, come è normale tra chi ha vissuto –poco importa se con sconosciuti- momenti emotivamente significativi) e mi raccontano che sono dovuti tornare di notte con il bus fino a Bellinzona per trovare da dormire.

Fatte le foto di prammatica, saluto il Canton Ticino e quella parte di Svizzera che fa parte della regione geografica italiana; un colpo di pedale e via, giù per la discesa, che pare ripida quanto la salita, ma è più corta e meno godibile, perché meno varia paesaggisticamente e interrotta da continue curve a U che costringono a frenate frequenti e faticose.

La strada si fa meno scoscesa appena passato il ponte sul Reno, a Hinterrhein, ma, sia pure con qualche saliscendi, la pendenza media resta nettamente favorevole. Procedo perciò a gran velocità, anche troppa, tanto che al termine di una ripida discesa, imbocco per un’errata valutazione la corsia d’uscita dell’autostrada e devo invertire precipitosamente la marcia per non finire in mezzo al traffico veloce. In effetti l’errore è stato causato dal fatto che improvvisamente la strada si è tanto rimpicciolita da sembrare poco più di un sentiero, in cui due auto non potrebbero incrociarsi. Però è ombreggiata, in discesa, scorre diritta parallela all’autostrada e in alcuni tratti si allarga in una vallata sempre più ampia, in altri si infila in strette gole in cui il verde scuro degli abeti si apre a volte lasciando intravedere l’incredibile verde smeraldo di qualche laghetto o una spumeggiante cascatella. 

Ma il tratto più suggestivo è quello poco prima di Thusis: senza che quasi me ne accorga, mi trovo in una stretta gola, sprofondata tra due pareti rocciose che impediscono l’accesso diretto dei raggi solari; la luce infatti diminuisce bruscamente, come se una spessa nube avesse oscurato il sole e la temperatura si abbassa di colpo, mentre dal burrone che intuisco al di là delle protezioni improvvise correnti di aria gelida risalgono sommandosi a quelle provocate dal moto. La strada, già stretta, si incunea tra le pareti dell’orrido, dando l’impressione di volersi restringere ulteriormente e provocando qualche brivido, non so se di freddo o claustrofobico; ma il momento più impressionante è quando, dopo una stretta curva presa a eccessiva velocità, mi trovo davanti una parete di roccia apparentemente senza apertura; in realtà il passaggio c’è, anche se è reso poco visibile dal grigio scuro della roccia e dalle ombre che vi disegna sopra la scarsa luce che piove dall’alto; è una fenditura che pare più irregolare di quanto non sia e che reca ancora i segni dei picconi che l’hanno scavata; introduce in un tunnel gelido e buio che mi costringe a fermarmi per coprirmi meglio e accendere le luci di bordo, anche se nessuna auto o moto sembra intenzionata a interrompere il silenzio cavernoso della galleria . Quando poco dopo esco di nuovo all’aperto e al sole, leggo su un cartello turistico quello che è l’appropriato nome assegnato a questo tratto di strada: “Via Mala” e solo ora mi accorgo che preso dall’aspetto minaccioso e quasi sovrannaturale della gola, mi sono dimenticato di scattare qualche foto.

Finalmente raggiungo Chur, ovvero Coira in italiano (mi trovo nella Svizzera ladino-germanofona dei Grigioni di cui Chur è il capoluogo, che però conserva nel nome l'antica denominazione d'epoca romana "Curia Raetorum "); l’attraverso così rapidamente che, senza nemmeno il bisogno di consultare la cartina, mi ritrovo davanti a un arco oltre il quale scorgo strade lastricate e costruzioni di epoca medioevale: è il centro storico. Vi entro con la bici a mano; le strade sono strette, brevi e tortuose, come è logico aspettarsi da una planimetria medioevale, e -onore agli amministratori locali- rigorosamente pedonalizzate e provviste di panchine su cui il turista può riposarsi. Tutt'intorno abitazioni private e palazzi in stile dell'epoca, alternati a caffè, ristoranti e vetrine di negozi moderni, tutti però di foggia sobria e appropriata.

Il tempo di percorrere le prime stradine e subito trovo l’hotel che ho individuato in Internet come quello più adatto per pernottare. Alla reception provo con un po’ d’impaccio prima in tedesco, poi inglese a chiedere di una camera libera, ma la risposta è comunque un inequivocabile <<Nein>>. Peccato perché l’Hotel si trova in un edificio interessante, anticamente sede di non so quale corporazione. Cerco di consolarmi pensando che forse era molto caro, ma non vorrei che si ripetesse anche oggi come ieri sera il problema della ricerca disperata di un alloggio; in ogni caso la colpa sarebbe solo mia per non aver provveduto a suo tempo a contattare l’albergo via mail o telefono.

Nella ricerca di un altro Hotel (qui i B&B sembra che nessuno sappia cosa siano) vengo indirizzato al Franziskaner, poco lontano, in una piazzetta (vicino alla porta ad arco da cui sono entrato e di fronte a una graziosa fontana in pietra); qui ho maggior fortuna: parlano l’italiano, la stanza è spaziosa, il prezzo -comprensivo di un’abbondante colazione- è abbordabile e la bici è al sicuro in un cortile interno; inoltre ha un’ottima posizione nel cuore del centro storico, per cui, appena sono presentabile, ne approfitto per girare e scattare qualche foto tra i vicoli animati e ricchi di storia .

Dopo cena, sistemate le mie cose, via a letto per il giusto riposo, perché i km sono stati pochi, è vero, ma con il san Bernardino sulle spalle, oltre ai residui di stress dei giorni precedenti.

Percorsi oggi 90 km in 4h:30’

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5 Chur-Konstanz

L’uscita dalla città è facile quanto l’ingresso; la strada è scorrevole, le indicazioni sono chiare, quel che non è del tutto chiaro è, nella mia mente, il percorso migliore da seguire, una volta lasciata Chur e il cantone dei Grigioni: se cioè convenga viaggiare sulla cantonale parallela al Reno che tra l’altro segna qui il confine con il Liechtenstein, oppure tagliare all’interno, verso Ovest, per evitare strade troppo battute da auto e camion (anche se devo ammettere che finora, pur nei tratti a traffico più intenso, in Svizzera non ho incontrato problemi).  A casa nella mia ricerca su Internet ho visto che Chur è il punto di incrocio di numerosi percorsi ciclabili europei a lunga distanza, tra cui quello che viene da Andermatt e dal S. Gottardo (che qui prende il nome svizzero di Nord-Süd Route 3) e quello che raggiunge il lago di Costanza (Eurovelo Route 15) dopo un centinaio di km. È quest’ultimo che vorrei imboccare, ma non so dove intercettarlo esattamente né intravedo la relativa segnaletica. Intanto procedo spedito verso Landquart, che dista una quindicina di km da Chur e lì deciderò.

La strada scorre diritta e senza intoppi né dubbi, oltretutto in leggera discesa e in assenza di vento, lungo la cantonale a Est del Reno; intorno declivi con prati, frutteti e le caratteristiche case della regione, che è poi quella in cui è ambientato il celebre cartone animato di Heidi (anche se nel mio immaginario quello era collocato in un ambiente caratterizzato da alte e innevate vette alpine); tanto che sarei quasi tentato di farvi una visita e magari portare un ricordo alla mia nipotina.

Ad una rotonda priva di segnaletica, ho un’incertezza che mette in crisi due ciclisti alle mie spalle; mi scuso e ne approfitto per chiedere informazioni. I due sono la mia salvezza. Uno di loro, Mario, di madre calabrese, parla discretamente l’italiano, per cui (oltre alle inevitabili domande che mi sento rivolgere in ogni viaggio all’estero sulla nostra situazione politica passata o presente che gli stranieri non riescono assolutamente a comprendere) non solo mi spiega qual è il percorso migliore per il lago di Konstanz, ma decide di guidarmi fino all’imbocco della ciclabile lungo il Reno (anche se intuisco che questo gli costerà una deviazione di qualche km rispetto alla sua meta, il piccolo cantone di Appenzell).

Lasciamo dunque la cantonale e attraverso una rete di piccole e deserte stradine vicinali raggiungiamo la ciclabile sul Reno, o Rhein Radweg, la famosa Eurovelo n°15. che segue il fiume, costeggiando il lago di Costanza verso Ovest e poi puntando decisa a Nord, fino alla foce a Rotterdam. Per inciso,  ancora adesso non ho notato particolari segnalazioni e mi chiedo come facciano a individuarla quelli che non sono del posto.

Ora lo scenario è completamente cambiato: non più auto, case, incroci, rumori, ma solo un lungo diritto nastro scuro, affiancato sulla destra dal nastro argentato del Reno; all’estremo di ciascun lato una fila folta di alberi e siepi, al di là della quale colli e montagne occhieggiano come giganti curiosi. La pista, in genere abbastanza ampia da poter permettere teoricamente il passaggio di due vetture affiancate, è stata costruita su un ampio argine del fiume e pare svilupparsi all’infinito verso Nord. Su tutto regna un silenzio quasi irreale in cui si distinguono a tratti il fruscio delle ruote, il cinguettio di un uccello che passa vicino, lo sciacquio delle acque quando si infrangono su un masso; eppure non mancano le persone, ma queste sono un tutt’uno con l’armonia della natura, non un corpo estraneo che le usa violenza.

Sul prato ampio, pulito, verdissimo che a sinistra separa la pista dagli alberi (e che probabilmente serve come camera di compensazione in caso di piena del fiume) passeggiano due aironi, mentre altri uccelli vi si posano o zampettano, indifferenti alla presenza umana, che è tutt’altro che limitata. Anzi l’elemento che stupisce forse più di altri è che la Rhein Radweg (ma, presumo, anche le altre grandi ciclabili europee, che purtroppo non conosco) è percorsa da una incredibile moltitudine e varietà di utenti: ciclisti, pattinatori, trekker o corridori a piedi, semplici pedoni, alcuni per una normale passeggiata di mezz’ora in un ambiente rilassante, altri attrezzati per percorsi molto più lunghi. Altrettanto stupefacente è notare la quantità di persone di tutte le età e spesso di interi gruppi familiari, che amano (è la parola giusta) muoversi insieme in bicicletta (non importa di che tipo/dimensione/marca/costo), come se fosse la cosa più naturale del mondo e nel pieno rispetto reciproco. Certo anche da noi c’è gente che usa la bici, ma con una diversa consapevolezza e soprattutto una differente filosofia: più che come un diritto naturale a una mobilità sostenibile, è visto come una concessione strappata a forza, soggetta a subire le prevaricazioni altrui o a reagire operandone a propria volta a danno di altri utenti della strada. Qui invece nessuno occupa gran parte della carreggiata, si produce in scriteriate gare di velocità, o tenta sorpassi azzardati sfiorando chi procede più lentamente;le biciclette non mancano davvero, ma è assai più raro che in Italia vedere gruppetti di 5-10 ciclisti con tute sponsorizzate e atteggiamenti competitivi ai limite dell’aggressività scimmiottare i protagonisti del Giro o del Tour, senza degnare di uno sguardo il paesaggio e poi, al termine dell’uscita, risalire compiaciuti in auto e comportarsi ancora da padroni della strada, stavolta come automobilisti.

Parallela e simmetrica alla ciclabile svizzera, sull’altra sponda del Reno scorre la ciclabile del Liechtenstein, oltre la quale si vedono pochi centri urbani sparsi tra le colline e, per la verità, non particolarmente interessanti. La curiosità prende comunque il sopravvento, soprattutto quando mi ritrovo a destra un ponte interamente coperto in legno e oscuro all’interno, che pare uscito da un’avventura medioevale; così lo percorro dall’estremità svizzera a quella del Principato, mentre il contrasto tra la moderna bici con forcella in carbonio e la cigolante struttura in legno del ponte producono uno strano effetto, sottolineato dal rimbombo ogni asse. A sottolineare questa sensazione di sfasatura spazio-temporale, proprio mentre esco dal tunnel sull’altra sponda, vi entrano in gruppo una mezza dozzina di uomini a cavallo. Da una rotonda si dipartono varie strade, una punta direttamente verso le colline all’interno del Paese, probabilmente a Vaduz, anche se mi manca la conferma della segnaletica; ma non ho il tempo né un particolare desiderio di abbandonare una pista ciclabile per tuffarmi in un centro cittadino, anche se sicuramente non una metropoli, quale dev’essere la capitale di questa microscopica nazione che mi raffiguro una via di mezzo tra un Paese da operetta e un paradiso fiscale, ma mi rendo conto che sono caduto anch’io vittima dei luoghi comuni e dei preconcetti di chi giudica senza conoscere. A immediata riprova di questo, un automobilista che mi ha evidentemente notato fermo presso una rotonda e incerto sul da farsi, si ferma per chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Seguendo i suoi consigli, riparto lungo la ciclabile in direzione del lago di Konstanz, o Bodensee, nel quale il Reno si immette per poi raggiungere le Cascate di Sciaffusa, continuare verso Ovest e poi piegare nuovamente e definitivamente a Nord fino alla foce.

Anche la ciclabile orientale segue il fiume, ma con frequenti brevi deviazioni verso l’interno, in prossimità di qualche paesino o di un ramo secondario del Reno. È più in basso e forse un po’ meno larga della pista sull’argine svizzero; presenta brevi tratti di sterrato e talvolta pare meno curata, ma forse è solo una situazione momentanea dovuta a un temporale notturno che ha lasciato al suolo terra, foglie e rametti.

Approfitto di una deviazione all’interno di una zona boscosa e della presenza di un’area da picnic per apparecchiarmi e organizzare il mio lauto pranzo a base di baguette, formaggio spalmabile, pomodori e latte; la scarsa varietà del cibo è compensata dalla quantità: latte e pane insieme raggiungono da soli un kg e mezzo. Niente di strano, quindi se la ripartenza è un po’ fiacca e mi sento appesantito anche nella mente, tanto che in una deviazione mi perdo e stento a ritrovare la strada.

Uscito dal Liechtenstein senza quasi accorgermene, ormai mi trovo da un bel po’ a pedalare in territorio austriaco. Per non correre il rischio di perdermi nuovamente e di finire sul lago a Bregenz, saltando il bivio per Rorschach, decido di riattraversare il Reno, stavolta su un normalissimo ponte in cemento. Saluto la Rhein-Radweg che mi ha felicemente accompagnato per tanti km (almeno 80-90, più di tutti quelli percorsi nella mia intera vita ciclistica) e riattraverso il confine svizzero. Il ritorno nel traffico misto non è facile né gradevole dopo l’esperienza della ciclabile; mi ci vuole del tempo prima di riabituarmi al rumore, ai motori agli attraversamenti urbani, alle segnaletiche dai toponimi sconosciuti, alle strade assolate. Vengo però ripagato del sacrificio quando a Rorschach raggiungo il Bodensee. Non so se la costa settentrionale, quella tedesca, del lago sia più incantevole di quella svizzera meridionale, ma il vivo colore turchese delle acque appena increspate dalla brezza pomeridiana, il fresco ombrello protettivo degli alberi e la ricchezza dei fiori nelle aiuole curate con la proverbiale scrupolosità elvetica giustificano la mezzora di riposo che mi prendo sul muretto del parco sul lungo lago. La situazione si ripete in seguito in un’altra località rivierasca, ad Arbon, sicuramente anch’essa una perla del turismo lacustre. Vi arrivo attirato dall’indicazione di un percorso ciclabile, ma dopo qualche km preferisco abbandonarla, perché più che una pista è una passeggiata zigzagante e sterrata in un parco in cui si accalcano famiglie con cani, mamme con carrozzine, bambini in bicicletta e pedoni con gelato in mano. E poi, a forza di indulgere in soste rilassanti e contemplative, il pomeriggio sta avanzando a grandi passi e non voglio arrivare tardi a Konstanz, che non so bene quanti km sia ancora distante. Qui infatti attende una chiamata al mio arrivo un amico di Jürgen, Lothar, che abita qui e che si è premurato di trovarmi da dormire, cosa tutt’altro che facile dato il luogo e il periodo; infatti a casa io, per quante ricerche facessi su internet, non ero riuscito a trovare nulla a un prezzo inferiore ai 100-150 €.

Riprendo perciò la hauptstraße che mi porta fuori città e pedalo di buona lena verso la mia meta. E qui, a pochi km dall’arrivo, quando ormai sono rilassato perché la mia quinta giornata ciclistica sta per concludersi con piena soddisfazione e addirittura in anticipo sui tempi previsti, accade ancora una volta quel che non doveva più accadere e che invece si ripete con identiche modalità e (quasi) identiche conseguenze: come nel viaggio a Santiago, un cordolo di cemento, grigio come grigio è il fondo stradale, si erge all’improvviso a dividere la corsia ciclabile che sto percorrendo da quella pedonale. L’imprecazione parte quando già sono in volo ed è stroncata dal colpo della caduta, violenta e incontrollata, sul marciapiede fortunatamente e non in mezzo alla strada, dove stanno passando numerose vetture. Una di queste si ferma e ne scende una signora, spaventata dal mio volo, per prestare soccorso. Sono caduto anche stavolta sul lato destro, battendo quindi testa, spalla, gomito, anca e ginocchio; il casco mi ha protetto a sufficienza, ma il resto duole e sanguina parecchio. La buona samaritana mi aiuta a medicarmi e in un italiano scorrevole che ha appreso dal marito calabrese (tanto per cambiare) mi spiega che quello è un punto pericoloso dove una settimana fa era già caduto un altro ciclista. Come consolazione non è granché, ma se non altro, dolore, ammaccature ed abrasioni a parte, non ho riportato altri danni (due anni fa una clavicola incrinata e soprattutto un vasto ematoma erano stati ben più gravi); quello che invece non mi va proprio giù e anzi mi fa infuriare moltissimo con me stesso è il ripetersi di un evento che non può più essere considerato una sfortunata coincidenza: è la quarta volta in tre anni (la seconda in tre mesi, per non parlare di molti altri eventi simili, ma senza conseguenze) che cado per non aver notato qualcosa davanti a me. L’ultima volta mi è costato la rinuncia al previsto viaggio a Capo Nord con Paolo. Distrazione, stanchezza, vecchiaia o cosa? Inoltre finora mi è andata relativamente bene, ma non posso continuare ad andare in bici costituendo un pericolo per me e per gli altri. Devo accettare questa mia sopraggiunta inabilità, come si accettano occhiali o dentiere man mano che si avanza negli anni? 

La rabbia e la frustrazione sono intense, ma sterili, tanto più che adesso devo pensare a concludere la giornata alla meno peggio e domattina verificare le mie condizioni prima di decidere se è il caso di proseguire. Perciò chiamo per prima cosa Lothar e ci diamo appuntamento alla stazione centrale di Konstanz verso le 18.30. Ho abbastanza tempo per cercare una fontana e darmi una ripulita sommaria che mi renda meno impresentabile, ma mi rendo conto che la maglietta antisudore che indossavo al momento della caduta è ormai slabbrata e lacerata irrimediabilmente; poi raggiunta Kreuzlingen, che è la cittadina elvetica unita a Konstanz immediatamente al di qua del confine, trovo il varco che mi consente di entrare nella città tedesca e raggiungere la stazione centrale. Una decina di minuti dopo incontro Lothar: somiglia vagamente al grande Puffo e condivide con me grossomodo la corporatura, l’età, la bicicletta, Internet e –a quanto mi ha descritto Jürgen - la parsimonia: tanto per fare un esempio, è riuscito a trovare un biglietto andata e ritorno per New York a prezzi eccezionalmente bassi, a visitare gratuitamente mezza dozzina di celebri musei altrimenti costosi e conosce praticamente tutti i luoghi dei cinque continenti in cui la birra dal secondo boccale in poi può essere bevuta gratis a volontà. Soprattutto per questo gli è stato conferito l’incarico di reperirmi un alloggio. Comunichiamo facilmente in inglese, e quando gli mostro la mia maglietta, mi risponde di non preoccuparmi: mi porterà ad un negozio dove potrò comprarne una nuova. Io veramente preferirei andare prima all’albergo per finire di lavarmi, cambiarmi e sistemare medicazioni e fasciature, ma lo lascio fare. Attraverso un complicatissimo giro nel centro storico (una sorta di arabesco per congiungere due punti altrimenti vicini, forse per farmi ammirare le bellezze della città vecchia, ma non sono molto in condizione di goderne), mi guida fino a un primo negozio, poi a un secondo, infine a un terzo, l’unico provvisto delle famigerate magliette, poi quando si accorge del loro costo elevato, esterrefatto vorrebbe portarmi via, ma a quel punto sono io a insistere e ne compro una: 37 € non sono pochi ma in Italia non l’avrei trovata per molto meno e poi mi serve. L’unico rimpianto è che non accettano pagamenti con carta di credito e perciò devo usare i contanti che si stanno assottigliando sensibilmente. Alla faccia di quanti mi avevano assicurato che all’estero avrei pagato con la carta anche le spese più insignificanti! L’unico pagamento possibile finora è stato quello dell’hotel di Chur. Ripartiamo alla volta dell’albergo; lo stile di guida di Lothar è a dir poco creativo: roba da far venire l’esaurimento anche al più scafato ciclomotorista partenopeo (vabbè, anche questo è un luogo comune, un pregiudizio), ma dopo un po’ di giri concentrici, salite sui marciapiedi, zigzag tra i mezzi pubblici, sensi vietati, scavalcamenti di transenne etc che mi fanno sentire come a casa, non mi sorprendo più, però non riesco a capire dove stiamo andando e perché ci allontaniamo sempre più dalla città; solo dopo essere arrivati in aperta campagna, capisco che siamo nuovamente in Svizzera e che ci siamo lasciati alle spalle anche Kreuzlingen. Arriviamo finalmente in un paesino e al mio albergo che sono le 21. Contrito per non esser riuscito a trovare qualcosa di più economico, Lothar si prodiga in scuse e ce ne vuole per rassicurarlo che a me va bene così, tanto più quando dopo scopro che la spesa, comprensiva della solita colazione a buffet si ferma a 45€ la somma più basa pagata finora, oltretutto con carta di credito. Per ricambiare la sua disponibilità e cortesia vorrei invitarlo a cena, ma gentilmente declina l’offerta e solo dopo capisco che data l’ora e le abitudini dei popoli anglosassoni, deve aver cenato già prima del nostro incontro. Ci diamo appuntamento a dopodomani, domenica mattina, quando partiremo insieme a Jürgen e Jan, il quarto del gruppo, alla volta di Dresda. Mangiata svogliatamente una pizza, torno in hotel, faccio una doccia ed esamino la situazione sanitaria: le abrasioni sono vaste e sanguinolente, ma sono state ben pulite e disinfettate, i lividi comprensibilmente ampi non presentano grossi ematomi, per sicurezza tuttavia metto abbondante crema anticontusioni, infine, se ci fossero fratture anche piccole me ne sarei ormai accorto dal rialzo di temperatura, dal gonfiore e soprattutto dal dolore, che rimane invece accettabile. Con questa consapevolezza ottimistica dopo aver rassicurato Jürgen, informato nel frattempo da Lothar, e dato conferma per il nostro incontro domattina, me ne vado a dormire

Percorsi oggi 140 km in 6h:10’

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6 Konstanz-Jettingen

Notte agitata soprattutto per il riacutizzarsi del vecchio dolore alla spalla destra, a cui si è sommato quello della caduta di ieri, che mi impedisce di dormire come d’abitudine sul lato destro; l’articolazione è tutta un crocchiare e scricchiolare, tra indolenzimenti e movimenti un po’ limitati, ma pare funzionare, le gambe sono intorpidite dal riposo mancato più che dai km di ieri (è stata la pedalata meno faticosa di tutto il viaggio finora), dopo una abbondante dose di caffè torneranno a girare normalmente.

Termino di fare colazione e di preparare il solito panino per lo spuntino di metà mattinata, quando mi si avvicina il gestore dell’hotel che ha visto le ferite al gomito e si offre di cambiarmi la medicazione, aggiungendo un’apposita pomata. Accetto, ringraziandolo sinceramente per la sua gentilezza e competenza: ancora persone premurose e generose. Poi parto per Kreuzlingen e riattraversata per l’ennesima volta il confine, arrivo alla stazione di Konstanz. Mentre aspetto l’arrivo del treno di Jürgen faccio il conto di quante volte ho attraversato frontiere ieri: Svizzera, Liechtenstein, Austria, Svizzera, Germania, Svizzera, roba da contrabbandiere professionista di prima classe!

Con elvetico-teutonica puntualità arriva il treno con Jürgen e bici al seguito: per esser qui alle 8.30 si è alzato quattro ore prima e adesso faremo insieme i 130-140 km fino a casa sua. È già vestito con casco, guanti e scarpette; sul manubrio ha montato il suo smartphone Samsung che utilizzerà come navigatore sia oggi che durante il viaggio da casa sua a Dresda, tenendo l’auricolare incollato all’orecchio destro, soluzione sicuramente pratica, ma poco gradevole, almeno dal mio punto di vista.

Partiamo poco prima delle 9. I primi km sono lentissimi: pare che uscire da Konstanz sia molto più complicato che entrarvi, o più probabilmente è il navigatore di Jürgen che ci costringe spesso ad aggirare una zona pedonale o un senso unico e allungare così il percorso di mezzo km, anziché andare contromano per 50 metri; sta di fatto che mezzora dopo non abbiamo ancora lasciato la città. Ho l’impressione che, se ci facessimo guidare dal semplice senso di orientamento e accettassimo qualche piccola trasgressione, saremmo molto più avanti; ma la guida è Jürgen e io ho completamente abdicato da ogni mia attività decisionale, delegando ogni scelta e responsabilità a lui, che a sua volta fa lo stesso col suo Samsung. È una situazione comoda per me, perché mi deresponsabilizza ed elimina ogni ansia, incertezza, necessità di prevedere, pianificare, mi solleva dalla difficoltà di chiedere informazioni parlando con la gente del luogo e mi fa sentire come un turista affidato in tutto e per tutto a un’organizzazione super efficiente, il quale deve limitarsi a pedalare dietro o a fianco del suo accompagnatore. L’altra faccia della medaglia è che questo tipo di viaggio presenta sicuramente meno imprevisti ed è più rassicurante, ma può anche risultare più monotono. Staremo a vedere.

Finalmente siamo lontani dalla città e pedaliamo in aperta campagna. Il navigatore, seguendo le impostazioni ricevute, ci conduce lontano dalle Bundestraße su strade secondarie, a volte stradine comunali o vicinali, povere di segnalazioni e semideserte, su cui è più facile incontrare un trattore che un’auto; sono percorsi che allungano sicuramente le distanze e che io, anche volendo, non avrei potuto scegliere, per il pericolo di perdermi in quella rete di vie di comunicazione che differenzia la viabilità tedesca rispetto alla nostra: in Italia, in genere, tra il punto A e il punto B c’è un percorso lineare principale, magari con uno o due itinerari alternativi, non un reticolo di strade secondarie dalle mille possibilità combinatorie. Tuttavia, se - come è giusto in un viaggio – non si ha la frenesia di arrivare prima possibile, questa scelta è la migliore, perché permette di vedere realtà altrimenti nascoste. A quel poco che ho modo di capire di persona o attraverso le delucidazioni di Jürgen, in un contesto fortemente antropizzato come quello tedesco le grandi vie di comunicazione sono generalmente circondate da opere di urbanizzazione o comunque da insediamenti umani, industriali, commerciali che lasciano ben poco spazio alla natura, mentre adesso invece lo sguardo si riempie dei mille colori dei campi a seconda delle colture di ciascun appezzamento, dell’alternarsi di boschetti a prati e pascoli, riducendo apparentemente l’intervento umano alla sola stradina che si srotola sotto le ruote o ai piccoli villaggi che appaiono improvvisamente dietro una curva o al di là di una collina. È un po’ la stessa sensazione di isolamento dal mondo del rumore e del cemento provata lungo la ciclabile del Reno. Mi stupisce anzi la mancanza di case nei pressi dei campi, ma Jürgen mi spiega che in campagna costruire abitazioni private al di fuori dei villaggi non è permesso, nemmeno ai contadini che perciò devono ogni giorno partire da casa per raggiungere il proprio podere.

Le strade scorrono, con frequenti incroci e cambi di direzione, su brevi tratti pianeggianti, ma più frequentemente alternano brevi discese ad altrettanto brevi (ma non per questo leggere) salite in un saliscendi continuo, smentendo in pieno chi pensa che quanto più ci si allontana dalle Alpi, tanto più il percorso sia piatto.

Anche se il continuo mutare degli orizzonti, le curve, i boschi ombrosi rendono vario il viaggio, alla lunga la stanchezza si fa sentire, almeno per me, visto che il mio compagno pedala come se fosse appena salito in sella. Perciò accolgo con piacere la proposta di fare una pausa. Siamo a Fridingen, un paese di piccole dimensioni con la sua piazzetta dotata di fontana, due panchine all’ombra di un albero e un paio di negozietti, ma quello che attira maggiormente la mia attenzione è una grande casa del tipo “a graticcio”: un tetto di mattoni rossi su due spioventi molto inclinati e muri esterni bianchissimi su cui spiccano le travi verticali, orizzontali e oblique della struttura in legno,. A conferire poi maggior vivacità all’edificio contribuiscono anche disegni e scritte tra le finestre e gli immancabili gerani o altri fiori variopinti. Queste abitazioni tradizionali, la cui origine si perde nella notte dei tempi, sconosciute nell’Europa mediterranea, ma frequenti soprattutto nell’Europa centro-settentrionale (mi vengono in mente York in Inghilterra e Strasburgo in Alsazia), non sono le prime che vedo in questo viaggio (già Chur ne mostrava di molto belle) e so che moltissime altre ne vedrò, ma mi soffermo sempre ad osservarle con piacere: mi hanno affascinato fin dall’infanzia, forse perché da sempre associate a un mondo magico di streghe, maghi, folletti etc.

Approfittiamo della sosta per comprare qualcosa da sgranocchiare che si aggiunge ai panini preparati prima della partenza. Già che ci siamo telefono a casa per rassicurare Gea dell’avvenuto incontro con Jürgen (non le ho ancora detto della caduta) e descriverle questa prima parte del viaggio.

Torniamo in sella e riprendiamo la pedalata verso Nord, dato che non siamo neanche a metà percorso. Solo ora mi accorgo che il corso d’acqua che divide in due la cittadina è nientemeno che il Danubio: visto da sopra il ponte sembra poco più di un fiumiciattolo, largo quanto un modesto canale d’irrigazione e nulla farebbe sospettare che sia quello stesso maestoso “schöne blaue Donau” che passa dalle principali capitali mitteleuropee e ha ispirato tanti artisti.

Tanto per cambiare il cielo, prima azzurro e terso si copre di nubi scure che minacciano un forte acquazzone, il quale però non arriva; arrivano invece le salite e non si tratta di viadotti o di collinette, ma di chine che salgono ininterrottamente per km fino a toccare i sette-ottocento metri. Sono però fiero di riuscire a tenere il passo del mio battistrada che, con una bici più leggera della mia e un semplice zainetto come unico bagaglio, sembra affrontare con disinvoltura ogni salita; io sono sudato e ho un po’ di fiatone, è vero, tanto da ricorrere sempre più spesso alla borraccia, ma sono soddisfatto che la caduta di ieri non abbia lasciato altre conseguenze che un po’ di dolore che la fatica riesce in gran parte a mascherare. Una volta raggiunta la cima, la salita si inverte bruscamente, annullandosi in una discesa altrettanto dura e a una velocità da brividi in tutti i sensi, quando si svolge non più sotto il sole cocente ma in un bosco al coperto di un tunnel di alte piante che non fanno filtrare raggi di luce.

Abbiamo ormai percorso quasi un centinaio di km, attraversando paesi e villaggi e comincio a pregustare l’imminente arrivo quando cominciano a cadere le prime gocce e a levarsi un vento freddo e violento, carico di elettricità. Per fortuna siamo entrati in un borgo e troviamo rifugio in un bar. Inutile affrettarsi, spiega Jürgen: da casa lo hanno avvertito telefonicamente che un nubifragio si sta abbattendo da quelle parti e pare spostarsi nella nostra direzione. Decidiamo perciò di effettuare un’altra sosta a base di caffè e gigantesche fette di torta, che in altri contesti avrei rifiutato perché troppo ricche di panna o burro, ma ora risultano graditissime. Quando ripartiamo la pioggia non è del tutto cessata, ma la situazione sta rapidamente migliorando ed è evidente che il temporale ci ha solo sfiorato e ora sta dirigendosi altrove. Col sole, però, torna rapidamente anche il caldo e l’umidità si converte in afa. La ciliegina sulla torta poi è costituita da una salita che “è dura, sì, ma è l’ultima della giornata” mi rassicura mentendo spudoratamente il mio compare. Infatti niente da obiettare sulla durezza: si superano i 900 m. slm e la fatica è davvero tanta e i muscoli sono così tesi per lo sforzo continuo che sembrano sul punto di grippare da un momento all’altro; ma non faccio in tempo a godere della discesa che subito un altro poggio si profila all’orizzonte. Sto cominciando a mandare al diavolo la Germania i suoi bucolici boschetti e le sue mille colline e le sue inesistenti pianure; quasi quasi rimpiango la Pianura Padana… be’ non esageriamo.

Ho terminato l’acqua da un pezzo e le riserve di glicogeno dei miei muscoli si sono esaurite, comincio perciò a staccarmi da J che deve quindi rallentare. Vedendomi così provato, J. adotta una cura che si rivela peggiore del male: comincia a dire <<Coraggio, siamo quasi arrivati, siamo agli ultimi km>> Io non ho cartine, né riscontri visivi, né la lucidità per calcolare mentalmente quanti km manchino davvero; così gli credo fino alla più cocente delle delusioni quando mi rendo conto che quel villaggio sullo sfondo non è la nostra meta, che quel colle non è l’ultimo, che dopo questi 5 km ce ne sono almeno altrettanti…

Intanto, i previsti 130 km si sono allungati di un buon 20% e l’inattendibilità dei miei calcoli e dei miei pronostici mi fa rassegnare ad un arrivo che non arriva mai, per cui smetto di controllare tabelle e contakm e dedico piuttosto la mia attenzione a ciò che mi sta intorno. E questo si rivela un bene, perché, assunta una posizione in sella più rilassata ed una velocità ancor più cicloturistica, inganno la sete e la fatica osservando il paesaggio: spariti i boschi e le strade ombreggiate, ci troviamo ora su un pianoro aperto e sconfinato in cui i campi di granturco si alternano a quelli di grano non ancora mietuto (la stagione –mi spiega Jürgen- quest’anno è un po’ in ritardo a causa del maltempo primaverile) e nella luce diffusa del pomeriggio assumono un intenso colore ambrato, mentre la stradina, diritta e solitaria sembra condurre verso il nulla: solo qualche punta di campanile emerge ogni tanto a grande distanza sopra le spighe di quel mare dorato.

Ogni tanto, ai margini di qualche appezzamento coltivato scorgo una specie di edicola improvvisata, o più spesso una semplice panchetta, con sopra un cartello e una cassettina. Alla fine ne chiedo la spiegazione a Jürgen: si tratta di una sorta di self-service in cui chi passa di lì può fermarsi a cogliere dei fiori o dei frutti direttamente dal campo, depositando il denaro equivalente nella cassettina; il tutto all’insegna della fiducia nell’onestà del prossimo. Inevitabile chiedersi quanto un simile sistema potrebbe aver fortuna a sud delle Alpi e come ne sorriderebbero tanti miei compatrioti con l’aria furbesca di chi crede di saperla lunga e non si rende nemmeno conto di quanto è alto il prezzo che deve pagare, in termini di qualità della vita, rinunciando a queste facili pratiche di convivenza civile.

Non fosse per i ticchettii, gli scricchiolii e i cigolii del mio bolide, che rivendica anche lui il diritto a lamentarsi, o per i versi di qualche cornacchia che sembra disapprovare la nostra intrusione, regnerebbe il silenzio più assoluto, tanto da farmi venire in mente i pomeriggi assolati e deserti della Puglia della mia infanzia, rotti soltanto dal frinire intermittente delle cicale.

Poi, come Dio vuole, senza altre salite (ma è anche possibile che la mia mente si sia rifiutata di registrarle o ne abbia rimosso la memoria), mi ritrovo in una via costeggiata da villette tutte diverse, ma nello stesso stile: a un piano con seminterrato e mansarda, tetti spioventi, colori chiari di legno e intonaco, ampie vetrate, giardino molto curato e con piante fiorite tutt’intorno. Una di queste è la casa di Jürgen. Siamo arrivati; la giornata e la prima parte del viaggio si concludono qui. Riesco appena a grugnire qualche saluto e mi precipito sulla prima di una lunga serie di bottiglie d’acqua. Al momento della doccia trovo una bilancia e mi peso: quasi cinque kg meno del giorno in cui sono partito, ma so che sono soprattutto i liquidi persi oggi, in una giornata, che si è rivelata alla fine una delle più dure del viaggio, più stancante perfino del San Bernardino. Dopo un giorno di sacrosanto riposo, dopodomani inizierà la seconda parte del tour, ma ad un ritmo – speriamo – più blando, con direzione Est e non più Nord.

Intanto chiamo casa per dare a Gea la lieta novella e ricevere le ultime informazioni: stranamente pare che in mia assenza il mondo non si sia fermato, anzi abbia preso a girare senza i soliti intoppi; c’è un solo problema: Otto il mio amato bassotto, nonché unico erede maschio e perciò primo nella linea di successione, è diventato ogni giorno più disappetente e inattivo, dopo la mia partenza. Me lo faccio passare al telefono e gli parlo a lungo con dolcezza, invitandolo a fare la pappa. Con la coda dell’occhio Jürgen mi guarda sconcertato, ma Gea mi rassicura: Otto ha scodinzolato e ora sta andando alla sua ciotola a mangiare. Fiero di questa mia qualità taumaturgica a distanza, vado anch’io a mangiare un boccone prima del meritato riposo.

Percorsi oggi 153 km in 6h:30’.

In totale percorsi 904 km in 6 giorni (41h:7’) alla media di 22 km/h. Superati dislivelli per un totale di circa 7.000 m., di cui oltre metà in area appenninica e alpina, il resto tra le colline tedesche.

 

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Chi viaggia
senza incontrare l'altro, non viaggia,
si sposta.

(Alexandra David-Néel)

 

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