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  Prologo ·~

1° giorno:  Jettingen - Tübingen
2° giorno:  Neuler - Bubenreuth
3° giorno:  Bubenreuth - Hof
4° giorno:  Hof - Geithain
5° giorno:  Geithain-Weißig

~· Epilogo ·~

 

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Diario di viaggio 

da Tübingen a Dresden

 

Prologo: Jettingen - Tübingen

La giornata di ieri si è svolta all’insegna del riposo, almeno quello fisico. Al risveglio mi sentivo abbastanza riposato, anche se per tutta la notte non facevo che destarmi per il dolore alla spalla e per il timore di bagnare lenzuolo e materasso col sangue che mi usciva dalle ferite non ancora rimarginate; comunque, a differenza di quando sono a casa, non ho mai avuto problemi a riaddormentarmi. Appena entrato in sala da pranzo per il breakfast, ho trovato J. (Jürgen) e sua moglie Gabi davanti alla tavola già imbandita con ogni sorta di cibarie solide, liquide e cremose; penso che farmi recuperare i cinque kg persi nel viaggio fin qui siano per loro un punto d’onore, sta di fatto che comunque io non mi sono lasciato pregare e che ho ingurgitato quanto la decenza mi ha consentito (e forse qualcosina in più).

Nella pausa dopo la colazione ho avuto modo di visitare la casa: la prima impressione che se ne ricava, almeno chi come me è abituato a vivere in appartamento, è di grande luminosità e spaziosità, dovuta probabilmente alla mancanza di porte tra le stanze del vasto reparto giorno e alle ampie finestre e porte-finestre che danno sull’esterno e lasciano entrare una gran quantità di luce, oltre alla vista di un giardino non enorme, ma con un prato ben curato e piante variopinte che costituiscono un anello di colore tutt’intorno ai muri bianchi della casa. Il reparto notte (con uno studio, oltre alle camere da letto) si trova al piano superiore, mentre nel seminterrato ci sono altre due camere (una è la mia) con vista sul giardino, locali per il tempo libero e di servizio. Il tutto - come ho avuto modo di vedere dal confronto con altre abitazioni - segue uno schema abbastanza libero, probabilmente su progetto originale di un buon architetto, ma la principale attenzione - mi spiega J.- è quella riservata alla efficienza energetica, necessaria per combattere il rigido clima invernale: questa è curata nei minimi particolari a cominciare dall’uso del legno nelle pareti e nel tetto, all’isolamento e alle coibentazioni, ai doppi vetri, alla cattura dei raggi solari che vengono fatti entrare e “imprigionati” all’interno, all’installazione dei pannelli solari e, infine, ad un efficiente sistema di riscaldamento a legna (più economico e meno inquinante che a carbone o gasolio); a testimonianza di questo J. mi mostra la legnaia, in pratica una sorta di miniappartamento con tre locali in cui con teutonica precisione sono selezionati e quasi classificati come i volumi di una grande biblioteca tonnellate di ceppi di legno tagliati e squadrati.

Poi J., anche in vista della partenza domattina, mi convince dell’opportunità di far controllare la mia bici che emette strani cigolii e ticchettii; andiamo perciò dal suo meccanico di fiducia il quale, da buon intenditore, mostra di conoscere e ammirare la marca della mia Tommasini, un po’ meno le sue condizioni generali, soprattutto per quanto riguarda il cambio. Il mio timore è che proponga di ripararla sostituendo la maggioranza delle parti in movimento con costi stratosferici, ma, dopo aver provato a fare qualche regolazione, il responso mi rassicura e sconforta nello stesso tempo: di veramente rotto o pericoloso non c’è nulla, ma i segni dell’usura (e della cattiva manutenzione, non lo dice, ma so che lo pensa) sono davvero tanti e cambiare pezzi sarebbe troppo lungo e costoso; posso continuare così, almeno finché regge, e alla fine del viaggio ricorrere magari a una pietosa eutanasia (ma anche questo non lo dice esplicitamente).

La seconda parte della mattina è riservata alla visita della vicina città di Tubinga, ovvero Tübingen, ricca di storia e di cultura fin da quando nel Medioevo fu uno dei primi e più importanti centri universitari europei: nel suo seminario cattolico, come si legge sulla lapide all’ingresso, si sono formati i grandi della cultura germanica: il medico Alzheimer che dette il nome all’omonima malattia mentale e il poeta Hölderlin che malato mentale ci morì, studiosi della fisica, della metafisica e dell’astrofisica come Geiger, Hegel e Keplero, o il teologo Hans Küng col suo collega Ratzinger non ancora papa e molti altri ancora, di cui colpevolmente ignoro il nome, ma che J. e Gabi sono orgogliosi di citare, ottenendo in cambio da me un frettoloso quanto falso “Aaah…” di ammirazione.

Ma la parte più interessante e pittoresca, quella che fa di Tübingen la San Gimignano del Baden-Württemberg, è il centro storico con le sue tipiche case a graticcio, costruite cioè su un’intelaiatura di travi rivestita da un intonaco a calce dal quale la struttura in legno riemerge con disegni leggermente diversi l’una dall’altra; se la tecnica di costruzione è praticamente la stessa, in realtà le abitazioni si differenziano le une dalle altre proprio in virtù della diversa disposizione delle travi a faccia vista, che costituiscono una sorta di disegno geometrico variabile da edificio a edificio. Ed in una giornata di sole è uno spettacolo che mette allegria vedere le persone camminare liberamente, tra due file di queste case alte fino a cinque piani, ricche di abbaini e mansarde, lungo le vie, rigorosamente off-limits per i veicoli a motore, intervallate da fioriere, tavolini e colorati ombrelloni.

La visita a Tübingen si conclude nel pomeriggio, dopo che sono stato iniziato ai piaceri dei biergarten: vicino al ponte sulla Neckar entriamo in una specie di parco-giardino con annessa birreria, il “Neckarmüller Biergarten”, troviamo posto a fatica (è sabato) su una panca e ci rimpinziamo io di Ofenkartoffel mit Kräuterschmand (una patatona al forno con salsina di panna acida), loro di Wurstsalat; per tutti accompagnamento obbligato di Pretzel e birra.

Al ritorno ci fermiamo da Reinhard (o Reiner o Reinar o Reinhald o boh?!), il fratello di J. che compie gli anni e che ha riunito tutti i parenti in linea ascendente, discendente e collaterale davanti a una grande tavolata. Il festeggiato è Reinhard, ma la attrazione più attesa devo essere io, l’italiano che ha pedalato quasi mille km per venire in Germania e in onore del quale, mi pare di capire, sono state preparate varie pizze (tutte buone per la verità, tanto che io mi servo, dapprima con pudore, poi senza più freni). In un clima di attenzione quasi imbarazzante per me, fioccano le domande, per lo più in inglese, ma da parte dei più anziani anche in tedesco, per cui faccio fatica a rispondere (ma mai quanto loro a comprendermi), il tutto in un’atmosfera di allegria e calorosa familiarità, accentuato dall’arrivo in tavola della torta e di qualche bottiglia di vino locale. Il tardo pomeriggio si conclude a casa di J. con uno spuntino a base di frutta; finché all’imbrunire, per la quarta volta in poche ore, si ritorna a tavola (ma quante volte al giorno mangiano ‘sti teteschi?).

Nel dopocena diamo una rapida occhiata alle previsioni meteo, che non promettono nulla di buono per l’immediato futuro (ma rimandare la partenza da domani a dopodomani non risolverebbe nulla) e, dopo una breve illustrazione del nostro itinerario dei prossimi giorni, affrontiamo la questione bagagli.  J. infatti è convinto che la grande fatica che io ho fatto ieri a stargli dietro, sia dovuta, oltre che alla stanchezza accumulata nei giorni precedenti, soprattutto al peso delle salmerie, che andrebbero drasticamente ridotte, evitando di portare ciò che non sia realmente in-di-spen-sa-bi-le. Provo a obiettare che tutto ciò che si trova nelle mie borse è - o potrebbe rivelarsi - ne-ces-sa-rio, ma non riesco ad essere sufficientemente convincente ed assertivo, perché continua a scuotere la testa. Lo sfido allora a rifare insieme i miei bagagli: svuoto tutto sul letto, sul tavolino e sul tappeto e cominciamo.

Maglietta da bici? Jawohl! No è possibile di fare senza.
Due pantaloncini da bici, uno per pedalare e lavare la sera e l’altro di riserva? Nein, uno solo: se proprio tu piace bucato, lava al pomeriggio e alla mattina è già asciutto.
Pantaloni lunghi e a mezza gamba? Nein, scegli uno solo; mica è sfilata di moda.
Un paio di T-shirt e una polo? Nein, per dopo pedalata, basta una cosa sola.
Scarpe da bici e scarpe da passeggio? Jawohl, cambio di scarpe è necessario, sì.
Tre paia di calzini? Sei calzini per due piedi soli? Basta uno paio.
Slip, almeno due, no?, uno in bici e uno per la sera? Nein, uno solo: sotto i pantaloncini di bici il vero ciclista porta nulla.
Gambali antipioggia? Perché? Se gambe si bagnano poi asciugano.
K-way, mantellina e telo di plastica per riparare i bagagli dalla pioggia? Nein, troppo pessimista: se piove poco, uno basta; se piove troppo, due non serve.
Lampade bici e giubbotto riflettente per la sera? Inutili, no si viaggia di buio, noi.
Fotocamera, telefonino e relativi caricabatteria? Se proprio vuoi, ma anche altri hanno fotocamera e è possibile tuo telefonino anche per fotografie usare .
Documenti e carta di credito? Natürlich! No puoi fare senza.
Mini pronto-soccorso con cerotti, disinfettante, pomate? Perché? Abbiamo farmacie pure in Germania, no credi?
Libro da leggere? Nein, dove tu trovi tempo di leggere?
Occhiali di scorta, temperino multiuso, ago, filo, forbici, kleenex, nastro adesivo, cartoni, elastici e cinghie, corde, fil di ferro? Perché tutto qvesto? Devi aprire bazar?
Penna&Taccuino? Lapis&Gomma? Nein, devi scrivere letterina a fidanzatina? O fare ritratti?
Asciugamani, saponi, shampoo? Perché, quelli di hotel no ti basta?
Buste o sacchetti di plastica? Perché? Devi forse riempire loro con spesa in supermarket?
Biscotti e barrette? Pensi in Germania no c’è bar? O che noi desideriamo stare in dieta?
Pezzo di copertone, chiavi, brugole, smaglia-catena, camere d’aria/mastice/toppe/leva-fascione, cavetti per freni e cambio, dadi, bulloni, raggi …? Qvesto solo e niente altro? Forse devi proseguire per deserto di Gobi?

Dopo questa falcidia in effetti rimane solo un mucchietto di pochi oggetti, ritenuti indispensabili, a cui di nascosto aggiungo gambali antipioggia, un paio di calzini, temperino, fotocamera, penna e taccuino; ma bastano queste poche trasgressioni per farmi sentire quasi un italico furbastro.

A questo punto entrerebbe tutto in una sola borsa e avanzerebbe spazio; soppesando il mio portapacchi, corredato di catarifrangente, tiranti e parafango, J. lancia un’idea: perché non lasciare anche quello e sostituirlo con uno zainetto? Io storco il naso: non ho mai usato zaini per non dover portare sulle spalle un peso che sballonzola qua e là, indolenzisce e fa sudare, ma lui va a prendermene uno da escursionista: è quello della moglie, un po’ più piccolo del suo, leggerissimo, coi distanziatori antisudore sulla schiena e cinghie stabilizzatrici sul davanti, varie tasche tra cui una con un’ utile guaina impermeabile. Lo riempio e lo provo, in effetti è comodo e non batte nemmeno sulle ferite alla spalla, ma soprattutto mi garantisce un risparmio di almeno quattro kg, che sarà benedetto soprattutto nelle battaglie contro le salite: “in hoc zaino vinces”. È fatta, me ne sono già innamorato. Poi J. vuole strafare e prova a farmi rinunciare anche alla borsa sul manubrio (e magari dopo pure alla bicicletta, con la scusa che a piedi sarei ancor più leggero), ma lo convinco ad accontentarsi di quanto ha già ottenuto, dato che per me (e le mie insicurezze) il cambiamento è stato già fin troppo rivoluzionario. Per consolarmi lui mi assicura che tutto quello che ho scartato penserà sua moglie Gabi a portarmelo a Dresda prima che io torni in Italia. Vado a dormire con questa certezza e l’appuntamento a domattina alle 5.30 “Alle 6.30?” “Nein, a la cincve e trenta! Dobbiamo stare in Tübingen a la 7” “Certo, certo, capisco” bofonchio io, ma dentro di me maledico levatacce e partenze notturne, che per me sarebbero in pratica tutte quelle prima delle 9.

È mezzanotte circa quando spengo la luce, accompagnato da muti quanto minacciosi bagliori in avvicinamento nel cielo di inchiostro.

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1 giorno: Tübingen-Neuler

Nel corso della notte, mi sveglio frequentemente a ogni cambio di posizione nel letto, o perché i piedi sono rimasti fuori dal piumone non rincalzato (che poi sarà leggero quanto si vuole, ma sempre piumone è; a luglio, poi!) che questi discendenti di Ariovisto si ostinano a usare al posto di un lenzuolo; ma più spesso a tenermi desto sono i sordi brontolii che seguono i lampi; contando i secondi che intercorrono tra la luce e il suono, sento che il temporale sta arrivando e quasi quasi mi auguro che sia tanto violento da farci rimandare la partenza almeno di un giorno: un po’ mi vergogno di questa mia piccola viltà, ma il fatto è che pedalare sotto la pioggia è una cosa che detesto.

In un modo o nell’altro arrivano le 5; il suono della sveglia e i movimenti che avverto al piano di sopra mi fanno capire che è comunque ora di alzarsi. Li raggiungo in soggiorno, dove, tanto per cambiare, c’è una tavola apparecchiata con cappuccini fumanti, formaggi, prosciutto, insalata, pretzel, pane, burro, marmellate, yoghurt, müsli, fragoline di bosco, ribes, mirtilli e frutta varia, latte, cioccolata… seguendo con la coda dell’occhio l’esempio di J. e Gabi (che deve essersi alzata un’ora prima per preparare quel ben di Dio), mi abbuffo e mi preparo un paio di panini da portarmi dietro, tanto ormai ho capito che, pioggia o non pioggia, si parte lo stesso. Anche J. consulta spesso il cielo, oltre al suo Galaxy, ma pare meno pessimista di me che annego il mio scoraggiamento nel terzo cappuccino. In effetti sembra che i tuoni si stiano allontanando.

Comunque pioviggina fitto fitto quando poco dopo le 6 ci raggiunge anche Lothar (arriva direttamente da Konstanz, magari non sarà nemmeno andato a letto; ma quando dormono ‘sti teteschi?) e cominciamo a caricare le nostre tre bici e i rispettivi zaini nella capiente station-wagon di J.

Poi scocca l’ora zero: saluti, cinture, accensione motori, 3, 2, 1, 0… GO!  Partiti!
Ma la partenza vera e propria avviene mezz’ora dopo a Tübingen, dalla casa di Jan, il quarto moschettiere, che raggiungiamo in una mezzora; se Lothar dà l’impressione di essere un folletto con i lineamenti da Grande Puffo e l’espressione birichina di Einstein, Jan ha la stazza e la fisionomia del gigante buono e saggio. Certo J. nonostante sia prossimo al giro di boa del mezzo secolo, coi suoi capelli neri e il fisico atletico di un trentenne, sembra quasi un ragazzino in compagnia di tre nonni bianco-criniti.

Terminata la fase delle presentazioni, dei saluti, dei controlli, dell’ultima telefonata a casa, mentre il cielo (di pari passo coi miei timori) trascolora dal nero plumbeo, al viola plumbeo, al grigio plumbeo, finalmente si parte. Sono le 7.30.

Primi km sotto una pioggia fine e intermittente su una stradina comunale che serpeggia solitaria nella campagna; procediamo a moderata andatura in fila indiana, silenziosi e incuranti degli spruzzi che le ruote sollevano, ma non posso fare a meno di mostrare gongolante a J. i miei gambali antipioggia che mi tengono all’asciutto polpacci e piedi. Lui risponde a gesti, minimizzando; in effetti le pozze sulla strada riflettono un cielo sempre più chiaro e di lì a poco le nubi si aprono alle prime chiazze di blu. Ciò non toglie che per un paio di volte un mini-acquazzone ci costringa a ripararci sotto un ponte.
Poi il sereno prende il sopravvento.

L’andatura sale a 27-30 km/h e con essa il timore di riuscire a tenere il passo dei miei tre compagni d’avventura: mi seccherebbe fare la parte di quello che resta indietro o comunque fa rallentare il gruppo. Di J. nel viaggio da Konstanz a casa sua ho già verificato le capacità di potenza e resistenza (ma anche la pazienza e la disponibilità), di Lothar so che è “uno che ama correre”, oltre a fare molto sport, di Jan non so nulla, ma basta osservare la sua struttura fisica, i suoi bi-tri-quadricipiti per aver un’idea della sua forza.

Il mio zainetto sta comportandosi più che bene: non balla, non dà problemi di aerazione e ha retto egregiamente la prova-pioggia proteggendo anche me, ma con la velocità crescono anche la fatica e il sudore, specialmente quando la strada inizia a salire significativamente; io lascio la coda e affianco J. che apre la fila per rivolgergli alcune domande. Chi è davanti ogni tanto si gira per controllare di persona o per chiedere a chi lo segue se qualcuno è rimasto indietro. “ALLE DA!” è il grido di rassicurante risposta che ci ritorna dall’ultimo della fila.

Pedaliamo così alcuni km, finché in cima a una salita mi accorgo che dietro di noi non vedo gli altri due. Ci arrestiamo all’ombra di un albero ad aspettarli, poi, visto che non si fanno vivi, J. li chiama col telefonino: si sono fermati perché Jan ha accusato un sovraffaticamento, ma stanno arrivando. Ne approfitto per mangiare i panini che ho nello zaino e sdraiarmi su una panchina con le gambe in alto e gli occhi socchiusi, ma solo per qualche minuto, giusto il tempo perché J. mi immortali con una foto. Di lì a poco infatti Lothar e Jan ci raggiungono e l’interessato ci spiega che a causa di un disturbo cardiaco, nei momenti di sforzo intenso e prolungato, specialmente sotto il caldo, ha problemi respiratori che lo costringono a rallentare. Mi dispiace per lui, naturalmente, ma mi conforta il fatto che non sarò io a frenare il gruppo.

Ripartiamo e pochi minuti dopo raggiungiamo Schwäbisch Gmund, importante cittadina dell’antica regione della Svevia (oggi inglobata nel Baden-Württenberg): su un colle non lontano si trova il luogo d’origine degli Hohenzollern, e sempre svevo era il casato degli Hohenstaufen a cui appartennero sia Federico I il Barbarossa, sia Federico II che tanta importanza ebbe anche per la cultura italiana. Il centro storico di Schwäbisch Gmund è costituito da una ZTL con strade lastricate su cui si affacciano, come a Tübingen, case a più piani del 1400-1500 perfettamente conservate; noi iniziamo la visita a partire dalla Piazza del Mercato fino a soffermarci presso la chiesa cattolica di S. Giovanni del XIII sec., il più antico edificio della città, in stile chiaramente romanico (nonostante qualche modifica successiva) come si ricava, da archi a tutto sesto, lesene, archetti ciechi, lunette e bassorilievi e dalla classica facciata in cui spicca un rosone e un bel portale con strombature.

Sull’acciottolato accanto alla chiesa dei bambini stanno giocando e spruzzandosi con l’acqua di una fontana pubblica; osservandola meglio, noto che si tratta di una specie di struttura didattica basata su un complesso di canalette sopraelevate e inclinate che lasciano scorrere l’acqua, assecondando la pendenza, lungo un percorso labirintico fatto di chiuse, ritorni e deviazioni, fino a una conca da cui è riportata in alto per mezzo di una vite di Archimede. Pare una via di mezzo tra un progetto di Piranesi e un tentativo di realizzare il moto perpetuo; anche se, chiaramente c’è il trucco ovvero un silenzioso motorino che rende possibile l’illusione, non posso fare a meno di ammirare l’iniziativa e coglierne la valenza educativa: basta guardare come i bambini osservano incuriositi il marchingegno cercando di capirne il funzionamento. Sarebbe bello che, anche da noi, amministratori ed educatori si ponessero l’obiettivo di rendere più stimolanti gli spazi pubblici e di riempire il tempo libero con qualcosa di meglio di un’area vuota in cui al massimo scalmanarsi giocando a pallone o contendendo lo spazio a nonni e carrozzine.

Mangiato un boccone in un caffè all’aperto, lasciamo la città e riprendiamo il nostro cammino, privilegiando il più possibile -praticamente sempre - le ciclabili e le strade comunali, rispetto alle quali Kreisstraßen, Landesstraßen e Bundesstraßen sono sicuramente più diritte e brevi, ma più trafficate e meno sicure, soprattutto queste ultime. Ne guadagna inoltre anche l’aspetto paesaggistico, che ci permette, come raramente mi è successo nei miei ciclo-viaggi un po’ nevrotici, di godere delle distese variamente colorate dei campi di granturco o grano, di vigneti, prati e pascoli o della fresca ombra dei boschi in cui predominano conifere di notevole altezza.

L’unica nota stonata riguardante la viabilità mi sembra essere l’alto numero di lavori in corso i quali, soprattutto all’ingresso/uscita dei centri urbani, ci costringono a fare lunghe e tortuose deviazioni che non sempre il navigatore di J. riesce a prevedere, oppure a scendere di sella e percorrere bici alla mano -e talvolta in braccio- fastidiosi tratti disselciati. Dopo l’ennesima interruzione ne chiedo la ragione a J., anche per tirare, da buon italiano, una frecciatina alla tanto decantata perfezione tedesca; ma la risposta del mio compagno è molto chiara e tronca sul nascere ogni nazionalistica velleità di rivincita: questo è il periodo in cui le città tedesche sono svuotate dalle vacanze e quindi il disagio per la popolazione locale è minore; inoltre i lavori si concludono in genere in una o due settimane, prima del grande rientro e della riapertura delle scuole.

A pomeriggio avanzato, dopo un paio si soste “tecniche” (per accompagnare un cappuccino a una fetta di torta locale ipercalorica e approfittare della toilette) presso un caffè, raggiungiamo la meta finale prevista per oggi, Neuler, un paese, anzi un minuscolo villaggio, in cima ad un poggio (che ci ha richiesto l’ultimo strappo della giornata), con pochi edifici, parte dei quali costituita da una fabbrica di birra, poche case, qualche negozio e, naturalmente, la struttura in cui pernotteremo: il “Landgasthof Bieg”: è una via di mezzo tra B&B e hotel; non so quante stelle gli vengano attribuite, ma la stanza è veramente bella e ampia con servizi (tra cui breakfast, wi-fi, tv satellitare, frigo-bar, balcone, parcheggio bici al coperto, etc. degni di un quattro-stelle) con buone specialità locali per cena, che i miei compagni di viaggio, dopo particolareggiate spiegazioni su ingredienti e ricette, mi invitano a provare accompagnandole con frequenti brindisi a base di birra (oltretutto il Gasthof è proprio di fronte alla brauerei). Sorprendente in senso positivo il costo: una trentina di euro per l’albergo e una decina per la cena. Lothar merita davvero i nostri complimenti per aver scovato in rete hotel così convenienti nel rapporto qualità/prezzo.

Al termine, breve passeggiata sotto le stelle. Dopo un esordio incerto, che mi aveva fatto temere il peggio, il meteo ci ha ripagato con una giornata davvero gradevole (J. però mi mette in guardia dall’eccessivo ottimismo: per domani è prevista pioggia al mattino); o forse a renderla tale è stato anche il fatto di pedalare in compagnia, chiacchierando, assecondando curiosità, sostando spesso senza mai arrivare a sforzi intensi e prolungati o a crisi di stanchezza acuta; anche la soluzione dello zaino si è rivelata indovinata. Bilancio dunque positivo di questa prima giornata.

Forte di queste rassicuranti constatazioni e sperando che J. non russi, vado a dormire.

Percorsi 120 km circa in 5h:30, superate tre alture principali, in media di 500 m ciascuna

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2 giorno: Neuler - Bubenreuth

J. non ha russato, ma la luce del giorno ha anticipato di un bel po’ la sveglia del mio telefonino: pare che nella patria di Einstein e Von Braun persiane, tapparelle, scuri o marchingegni consimili siano sconosciuti quanto i bidet; tutt’al più si trovano delle leggere tende che, se non proprio trasparenti, si impegnano poco a fermare la luce del sole. D’altra parte stamani di sole ce n’è davvero poco: stanotte, confermando le previsioni di J., ha piovuto a tratti e anche ora cade una pioggerellina impalpabile, che non ci toglie però il buonumore né l’appetito quando ci ritroviamo al tavolo per la colazione quasi tutti contemporaneamente. Sono l’unico a non servirsi di prosciutto e uova sode, ma mi consolo facendo il bis (e anche il tris e il quadris …) di tutto il resto.

Si temporeggia un po’ in attesa che spiova e si inganna il tempo telefonando a casa. Tra l’altro J. ci racconta che ieri, mezz’ora dopo la nostra partenza, a Tübingen si è scatenato un vero e proprio nubifragio con vento, pioggia e soprattutto grandine dai chicchi grossi come susine, che hanno lasciato il segno sulla carrozzeria della sua auto (parcheggiata sotto casa di Jan), ma non se ne preoccupa più di tanto: ci penserà l’assicurazione a risarcirlo nell’arco di una o due settimane. Evito di fare confronti e commenti.

Finalmente partiamo. Ieri la tappa aveva una prevalenza di salite; oggi al contrario si scenderà di quota più che salire. Tanto meglio.
Intanto pedalando a fianco di Lothar noto una targhetta con stampato il n° 242 sul carro posteriore della sua bici; gliene chiedo conto e lui mi spiega che è il numero progressivo con cui ha partecipato a una gara ciclistica poco tempo fa. Incuriosito, vengo a sapere da J. che Lothar, oltre a partecipare ogni anno a due tre importanti maratone (tra cui quella di New York, Londra o Parigi), è nientemeno che un iron man. Cioè? -chiedo io- Cioè -spiega lui- partecipa a competizioni in cui corre in bici per 180 km, poi a piedi per 42 km e infine a nuoto per 3 km e mezzo; insomma una specie di triathlon di cui io sarei forse capace di coprire a fatica la prima distanza per intero, la seconda per un decimo e la terza forse per un centesimo. Fortunatamente, almeno finora, non ha dato prova di voler impostare l’impegno fisico a questo livello, come mi confermano le sue abituali fermate ogni paio d’ore.

Dopo Ellwangen una deviazione per lavori in corso ci porta fuori strada e ci costringe a fare qualche km di strada bianca, cosa che inizialmente mi preoccupa non poco: pedalare sullo sterrato con le mie sottili ruote da corsa è quasi come infrangere un tabù per le mie sclerotiche abitudini ciclistiche; ma vedendo che gli altri affrontano senza fisime né patemi il medesimo inconveniente e che d’altra parte le mie ruote paiono non risentirne più di tanto, me ne faccio una ragione.

Solo dopo vari tentativi riusciamo a tornare al punto di partenza e imboccare la via giusta: per la prima volta il Galaxy, alle cui indicazioni J. si attiene fedelmente, mostra i suoi limiti. Come già nel tratto da Konstanz a Jettingen, infatti, J. tiene incollato all’orecchio l’auricolare del suo smartphone, da cui riceve in voce infallibili informazioni sul tracciato preventivamente elaborate in rete tramite il programma komoot. Le attuali incertezze, si giustifica J., dipendono forse dalla folta vegetazione o dal tempo piovoso o dalle stradine poderali che si intersecano continuamente con incroci a tre, quattro e anche cinque vie.

Intanto i cartelli ci dicono che abbiamo lasciato il Baden-Württenberg e siamo entrati in Baviera; il paesaggio ovviamente non cambia di colpo al cambiare dei confini amministrativi, però l’impressione iniziale è di una maggior quantità di vegetazione e di latifoglie a cui la forte umidità conferisce un colore verde intenso e lucente. Ci troviamo a pedalare nel cuore della cosiddetta Romantische Straße, itinerario giustamente celebre che deve il suo nome alla bellezza dei paesaggi e alla ricchezza di spunti storici e culturali.

Dopo una serie di saliscendi in cui superiamo i 630 m. (ma quello di oggi non doveva essere un percorso prevalentemente in discesa?) raggiungiamo Dinkelsbühl e subito capisco che questa deve essere la perla culturale della tappa odierna: come Tübingen due giorni fa e Schwäbische Gmund ieri, Dinkelsbühl si presenta subito come un gioiello medioevale con gran parte di mura e torri ancora intatte e il centro storico perfettamente conservato: dalla piazza del Mercato, peraltro stranamente non pedonalizzata (e questo fa infuriare J. che probabilmente vuol mostrare soprattutto all’amico italiano me quanto il rispetto dell’ambiente, dei luoghi culturali, delle persone sia avvertito in Germania, ma non è certo un eccezione a dimostrare la fallibilità di una regola) si dipartono la Hauptstraße e le vie secondarie, il cui acciottolato grigio contrasta con la calda tonalità delle tipiche case medioevali che vi si affacciano, buona parte delle quali oggi si sono trasformate in strutture alberghiere.

Vagabondiamo qua e là, cercando l’angolatura migliore per una foto o la casa a graticcio più originale, poi ci ritroviamo davanti alla mole di S. Giorgio, la cattedrale, chiaramente una chiesa originariamente di culto cattolico, dato che è dedicata a un santo e al suo interno contiene immagini di come quelle della Vergine o di S. Sebastiano o le reliquie di S. Aurelio, mentre nella tradizione protestante non è prevista la venerazione dei santi o della Madonna; la Baviera poi è un Land a netta maggioranza cattolica. L’interno della chiesa, in stile gotico, è imponente e severo, carattere accentuato dal silenzio per l’assenza quasi totale di persone, dalle sue altissime navate, e dalle pareti disadorne se si eccettuano le vetrate di alcune finestre istoriate con scene bibliche e i quadri sugli altari. All’improvviso veniamo strappati alla contemplazione dal suono cupo e avvolgente di un organo (solo ora lo noto, enorme e moderno, alle mie spalle, sulla parete d’ingresso della chiesa) che esegue a tutto volume una fuga che assegnerei a Bach, ma è solo un’attribuzione azzardata dovuta alla mia ignoranza in materia.

Riprendiamo la pedalata, sotto una pioggerella insignificante che serve solo a inumidire l’aria, attraversando oltre a qualche piccolo borgo di cui è facile perdere la memoria, tanta campagna coltivata prevalentemente a granturco o a cereali, in un’alternanza di verde e marrone o nero, laddove dopo la mietitura le stoppie sono state bruciate.

È forse un tratto meno interessante e vario dei precedenti, ma noi ci consoliamo prontamente presso uno dei tanti Biergarten che anche fuori dei centri abitati costeggiano la strada, offrendo ombra, qualcosa da mangiare e, naturalmente, birra. Non si tratta di ristoranti, osterie o bar, piuttosto di una via di mezzo tra a birreria e lo snack all’aperto e (come gli Imbiss bavaresi e austriaci) sono una simpatica istituzione germanica capace di risolvere il problema di un rapido lunch in maniera rapida ed economica.

Ci accomodiamo al fresco sotto un pergolato e, tanto per cominciare, ordiniamo una birra “media”, poi ognuno un piatto diverso a base per lo più di würstel, io su suggerimento di J. che ci tiene a farmi assaggiare ogni volta un cibo diverso, chiedo un Käsebraten mit Brot und Salat. Arrivano intanto le birre “medie”: un boccale riempito fino alla tacca da 500 cc, un’enormità per me che ho quasi perso l’abitudine a bere alcoolici e non credo di aver raggiunto il totale di 3 litri di birra in tutta la mia vita; però è fresca, è buona e scende giù che è una bellezza. Dopo averne assaporato un po’, a cominciare dall’abbondante schiuma, mentre i miei compagni la scolano per intero e ne ordinano una seconda di altra marca, aspetto che arrivino le pietanze. E qui viene il bello: mi portano un vassoio con sopra quattro fette di pan carré, uno spicchio enorme di formaggio, brie credo, impanato e arrostito, accompagnato da una foglia di lattuga su cui è adagiata della marmellata di ribes e in un altro piatto un’insalata mista con una Käsesoße. Mi ci vuole un bel po’ per finire il cibo e la birra e alla fine, completamente sazio mi alzo da tavola, col timore però di non essere abbastanza sobrio per pedalare, mentre Lothar, che è il “birrologo” del gruppo, si fa portare un terzo boccale di birra, ma stavolta “piccolo, perché non voglio appesantirmi” (ma quanto bevono ‘sti teteschi?). In realtà le gambe girano in modo sorprendentemente sciolto, come se la birra bevuta contenesse chissà quale miracoloso additivo dopante; con la coda dell’occhio spio Lothar, che da gran bevitore e iron man qual è dovrebbe volare, ma in realtà la sua velocità è la solita e l’unico effetto visibile delle sue bevute è costituito dalle ripetute fermate tecniche che deve effettuare.

A un certo punto, uscendo da un paesino, ci troviamo di fronte un “muro”: la strada si inerpica all’improvviso su un poggio che non c’è modo di aggirare; J. consulta le informazioni raccolte sullo smartphone e ci conferma che la salita è lunga solo alcune centinaia di metri, ma si aggira intorno al 15%; poi parte per primo. A ruota gli va dietro Lothar, poi Jan che dopo qualche decina di metri decide saggiamente di scendere e farsela a piedi e infine io. Inutile prendere la rincorsa: lo slancio si esaurirebbe dopo pochi metri; perciò metto subito la combinazione più leggera di cui dispongo, il 34/28 e cerco di trovare prima possibile il ritmo giusto. Supero subito Jan e pian piano mi avvicino a Lothar sperando di tenerne il passo senza mollare, ma è lui a mollare: a metà salita appena rallenta sensibilmente, senza forzare lo affianco e lo supero, stando attento a non accelerare inutilmente, come pretenderebbe qualche barlume di antico agonismo; mi basta non perdere di vista J. che è inarrivabile, là davanti.

Pedalata dopo pedalata, mentre intravedo alle mie spalle anche Lothar spingere il suo mezzo a piedi, la pendenza diminuisce e finalmente la strada impiana: proseguo qualche centinaio di metri oltre J., che intanto è sceso di bici per scattare qualche foto a noi arrancanti inseguitori. Tornando indietro noto sull’altra corsia un cartello con l’avvertenza di un’imminente discesa con pendenza al 18%. Sono quasi euforico: è la stessa di alcuni tratti del Mortirolo! Sì vabbè, qui era di un km scarso, però con un centinaio di km nelle gambe, e poi con in più il peso dei bagagli, e poi è la prima volta che supero una salita di questo grado, e poi sono riuscito a arrivare secondo “fra cotanto senno” e poi, e poi… A interrompere questa frenesia di autoesaltazione, arriva un perentorio “ALLE DA!”, perché ormai ci siamo tutti, pronti a riprendere la marcia; ma alla ripartenza, visto che non sono previsti a breve dei bivi o dei centri abitati in cui poter sbagliare direzione, pedalo fischiettando in testa alla colonna e mi godo le discese a rotta di collo, prendendo anche qualche leggero rischio nelle curve più strette o bagnate.

L’ultima parte del percorso odierno non prevede tratti impegnativi o luoghi di particolare interesse; attraversiamo ancora qualche paese come Ammemdorf e Cadolzburg e finalmente raggiungiamo Bubenreuth alla periferia di Erlangen. L’albergo che Lothar ha prenotato qui è il Landgasthof Mörsbergei: è un 4 stelle, in cui una doppia verrebbe a costare sugli 85€, ma Lothar l’ha spuntata a una settantina soltanto, il che significa circa 35 € a testa!

A cena oltre all’immancabile birra (giù un altro mezzo litro) mi faccio portare un piatto non particolarmente originale, ma comunque una specialità del luogo e del periodo: la Pfifferlingen Suppe (una zuppa di finferli o funghi gallinacci, in versione vegetariana), seguita da insalata e dolce, una sorta di tiramisù da 10.000 Kcal a cucchiaio. Anche questa cena si rivela più che sufficiente per le esigenze caloriche, ma decisamente economica; non ricordo quanto ho speso esattamente, comunque, come resto a una banconota da 20 € ho ricevuto varie monete da 1 o 2 €; ma in Germania il costo della vita non dovrebbe essere superiore al nostro (tanto più che i loro salari medi sono più alti che da noi)?

Dopo la solita passeggiata serale, buona per la digestione e lo smaltimento della birra, si va a dormire; la stanza, situata in un cottage terra-tetto, è ampia, ma risente ancora del caldo umido della giornata; però quando apro la finestra per far circolare un po’ d’aria, entrano nugoli di zanzare e J., che è particolarmente sensibile alle loro punture, mi scongiura di chiudere. Grande Paese la Germania, bello, moderno, civile; però, quando torno in Italia, bisogna che mi ricordi di inviare alla Merkel qualche catalogo di zanzariere, avvolgibili e bidet. Intanto (proviamo) a dormire.

Percorsi 142 km circa in 6h:25, superate varie alture per un totale di 900 m. in salita e 1100 in discesa

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3 giorno: Bubenreuth - Hof

Notte calda e afosa, ma è il primo giorno che non piove alla partenza, anche se il cielo è uniformemente grigio, però sono nubi di calore che dovrebbero dissolversi col passar delle ore.

Prima tappa: Forchheim. Passando sul ponte sopra un corso d’acqua all’ingresso in città mi pare di leggere qualcosa come “Canale del Danubio” mi riprometto di chiedere a J. informazioni in proposito; Forchheim è un centro di media grandezza della Franconia, regione storica oggi incorporata nella odierna Baviera. Come Dinkelsbühl e altre città germaniche -mi spiega J.- fu coinvolta nella sanguinosa guerra dei trent’anni e grazie alle sue fortificazioni, poté resistere a un lungo assedio, guadagnandosi un appellativo irriverente di cui però non sono riuscito a capire né il nome né la ragione, nonostante ormai J. abbia abbandonato il suo fantasioso italiano per un buon inglese (di cui spesso sono io a fare una fantasiosa traduzione). Anche la scenografia si ripete: il centro storico è rigorosamente pedonalizzato, con strade lastricate e le solite case a graticcio che conferiscono vivacità all’ambiente e ne costituiscono una nota di colore che, pur sempre gradevole, ormai non è più una novità; a casa, riguardando le foto, tutte abbastanza simili, che sto scattando in questi giorni, avrò qualche problema a collocarle nei giorni e nei luoghi giusti.

In questo tour, ogni giorno, agli incroci con altre strade ci sfilano accanto cartelli che mescolano nomi del tutto sconosciuti ad altri più o meno noti, magari soltanto per sentito dire, che si riferiscono a fatti tra loro diversissimi: l’originario casato dei Windsor, il luogo d’origine di una casata imperiale germanica, la caccia alle streghe, le sedi di importanti industrie automobilistiche, il processo ai gerarchi nazisti, festival musicali… Ricordo Stuttgart, Hechingen, Würzburg, Coburg, Bamberg, e soprattutto Nürnberg e Bayreuth per quello che evocano della storia e della cultura non solo tedesca, ma europea.

A questi si aggiungono in infinita schiera i nomi di piccoli borghi o villaggi dai nomi difficilmente pronunciabili e soprattutto memorizzabili, a causa anche delle identiche terminazioni (-ingen, -angen, -dorf, -berg, -burg, -haus, -hof, -reuth, -itz, -ach, -au…); noi li attraversiamo, senza fermarci e spesso degnandoli appena di un’occhiata, mentre il nostro viaggio prosegue verso Est o Nord-Est: ci stiamo avvicinando, infatti al limite nordorientale della Baviera, in direzione del confine con la Repubblica Ceca, che però non toccheremo, per salire più a Nord ed entrare in Sassonia.

Al primo Biergarten, sosta obbligatoria per i rifornimenti; dopo aver fatto fuori il mio solito mezzo litro di birra, ho ancora sete, ma non me la sento di ordinarne un’altra, anche se ho ormai constatato che non ha alcun effetto negativo sulle mie prestazioni -si fa per dire - atletiche; Jan, allora mi propone un Apfelschörle, l’accetto alla cieca, curioso della novità e scopro che si tratta di un mix di succo di frutta (mela, in genere, ma non solo) con acqua tonica e talvolta una scorza di agrumi; faccio prima a trangugiarlo e a ordinarne un altro che a impararne la pronuncia, anche perché Jan è molto esigente dal punto di vista linguistico e in particolare fonetico: dopo vari tentativi di Affenshorgle, Aftershorle, Apfelkogler, Apfelskurle, Apfel-shorgle, ognuno severamente bocciato dal mio maestrino dalla penna rossa (ma come sono pignoli ‘sti teteschi!), finalmente imbrocco la risposta giusta e mi merito la promozione; ma non posso fare a meno dentro di me di sorridere e pensare che almeno in questo noi italiani siamo un po’ più elastici: nessuno si sognerebbe di rinfacciare la sua dizione ridicola a un turista tedesco che chiedesse un piatto di “Schpaketti ai qvattro formacci”. Al tempo stesso, a futura memoria, mi impegno adesso a ricordare questi miei penosi sforzi di oggi nel momento in cui mi sembrerà incomprensibile che le mie anziane e poco alfabetizzate allieve del corso di italiano per migranti trovino difficile pronunciare parole per me semplici come studenti, valigia, abito, sciogliere... Il rovesciamento delle situazioni e dei ruoli, a ben pensarci, può essere un utile esercizio di tolleranza che andrebbe ripetuto più spesso e sono contento che un banale apfelschörle me lo abbia rammentato.

Si va avanti ora in fila indiana, ora a coppia; a seconda del compagno con cui chiacchiero, io alterno la mia posizione, ma preferisco pedalare in testa, anche perché durante le discese più veloci mi trovo spesso davanti Lothar che inspiegabilmente frena e sorpassarlo ogni volta mi sembra un atteggiamento vagamente arrogante, nonché pericoloso, quando per scartarlo devo portarmi in mezzo alla carreggiata.

Generalmente seguiamo percorsi ciclabili veri e propri, cioè riservati esclusivamente alle biciclette (il che non vuol dire che siano poco trafficati da velocipedi d’ogni sorta, specialmente in prossimità dei centri abitati) e segnalati da un apposito cartello; a volte invece percorriamo stradine di campagna in cui è comunque raro trovare veicoli a motore (e si tratta per lo più di un mezzo agricolo o del pick-up di qualche contadino); pare insomma che la gran massa dei motorizzati abbia voluto lasciarci la strada libera. In realtà il traffico in Germania non è meno intenso del nostro, ma privilegia le vie di grande comunicazione (anche perché la rete stradale è più ampia), mentre per gli spostamenti locali a piccolo raggio utilizza l’auto meno che da noi, o almeno questa è la mia impressione. D’altra parte è proprio su questi tratti “tranquilli” che J. ha impostato la rotta del suo navigatore.

Mentre stiamo percorrendo una larga pista ciclabile che corre parallela ad una strada regionale, vedo sulla nostra traiettoria, 50-70 m. davanti a noi, una vettura in sosta che occupa buona parte della sede stradale. In realtà avremmo lo spazio per passare, magari rallentando un po’ per sicurezza, ma J. sfiora l’auto e deliberatamente con un pugno colpisce lo specchietto, piegandolo con forza. Il pilota, che stava armeggiando con un cellulare, colto alla sprovvista, sobbalza all’urto e borbotta qualcosa, ma J., fermatosi davanti all’auto, lo apostrofa con un torrente di parole, di cui non ne afferro nemmeno una, ma che dal tono minaccioso lasciano capire benissimo il senso generale. Lo sventurato non risponde. e mentre ad uno ad uno gli sfiliamo accanto come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, nel suo affaccendarsi a testa bassa sul cruscotto è evidente il senso di colpa che gli ha impedito di replicare. Voltandomi pochi secondi dopo, lo vedo reimmettersi sulla strada principale. Il mio plauso silenzioso va a J., vendicatore degli oppressi, ma non so se uno Zorro a pedali avrebbe lo stesso successo da noi.

Passata Ebermannstadt, dove una grossa ruota a pale è piazzata in mezzo al fiume che attraversa la città, arriviamo a Streitberg, una minuscola successione di case addossate a un poggetto, sulle quali incombe minaccioso uno sperone di roccia; ma non è questo il motivo per cui ne ricordo il nome: all’improvviso ci si para davanti un’erta quale poche volte mi è capitato di vedere; se quella di ieri mi era parsa un “muro”, come dovrei chiamare questa? Ne approfitto per fermarmi e stringere la vite di regolazione del deragliatore (ultimamente la catena mi è già saltata un paio di volte da un rapporto all’altro) e per controllare l’altimetro: segna 345 m. Intanto gli altri partono; al solito J. l’affronta per primo, pedalando in agilità, ma dopo qualche decina di metri è già ritto sui pedali e si nota lo sforzo che fa per mantenere l’andatura; Lothar parte veloce, ma dopo poche pedalate ci ripensa, scende e prosegue a piedi; Jan saggiamente non ci prova neanche e si incammina tranquillo per la salita. Io inserisco immediatamente il rapporto più agile, per non dover cambiare sotto sforzo subito dopo, e mi avvio spingendo non solo con le gambe ma con le braccia, il tronco, il corpo intero; cerco di imprimere una pedalata “rotonda” spingendo con un piede e tirando con l’altro alternativamente, senza intervalli ed evitando “azioni a stantuffo” poco produttive dal punto di vista energetico. Cento metri, non accelerare, duecento, guarda avanti, trecento, respira in profondità, quattrocento, non ondeggiare, cinquecento, concentrati sulla ruota anteriore, seicento, non voltarti, settecento, non mollare, dovremmo esserci quasi.  Non so se mi scoppieranno prima le gambe o i polmoni, ma quando sento un grido d’incoraggiamento, scorgo J., sul ciglio della strada con lo smartphone in mano per la foto di rito. Ce l’ho fatta, ma non mi fermo, continuo sulla stradina ormai pianeggiante in cerca di un cartello che indichi la pendenza della salita appena superata; e poche centinaia di metri dopo trovo il segnale di pericolo con sotto l’incredibile cifra di 25%! Non è possibile! Torno accanto a J. e controllo l’altimetro: segna 465 m. dunque 120 m. di dislivello in 700 m. circa, che equivalgono a una pendenza del 17%, forse con un calcolo più preciso della distanza si può arrivare a un 18%, ragguardevole ma non certo il 25%, che d’altra parte sarebbe stato onestamente impossibile per le mie forze (ma non erano precisi e infallibili, ‘sti teteschi?).

Arrivano intanto anche Lothar e Jan, pure loro provati e approfittiamo di una breve sosta per scambiare due chiacchiere. Ma è tutta così la Germania, fatta di improvvise salite assassine? Ma lontano dalle Alpi non dovrebbero cominciare le pianure? Macché, mi spiega Jan, le uniche pianure sono a Settentrione vicino alle coste del mare del Nord e del Baltico. Anzi, rincara J., oggi toccheremo la quota più alta di tutto il tour: 800 m. circa. Rassegnato riparto, pensando “Beh, almeno siamo già a quasi 500 m.”. E infatti la strada continua a salire dolcemente per un po’ poi, all’altezza di Wustenstein ripiomba in basso, per poi risalire e riscendere in un’altalena continua per una cinquantina di km, in cui ancora una volta si susseguono villaggi e paesi, grandi distese di grano e granturco, boschi e ruscelli.

In alto su qualche crinale, svettano a tratti gruppi di torri eoliche, mentre lungo la strada incontriamo un paio di campi in cui sono piazzati uno accanto all’altro a centinaia di pannelli fotovoltaici; in un caso, poi ci sono due gruppi di pannelli orientati a 90° l’uno dall’altro, senza un’apparente spiegazione logica, se non che si tratta di una centrale in qualche modo sperimentale. Jan mi spiega anche che negli ultimi tre anni lo sviluppo di energia solare è tanto cresciuto da andare fuori controllo per cui il governo Merkel ha deciso di ridurre o eliminare in futuro gli incentivi al fotovoltaico, causando forti proteste da parte dell’opposizione; i miei amici propendono - mi par di capire e non solo per quanto riguarda la politica energetica - per la posizione governativa, tanto più che la quota di energia prodotta dalla Germania è enorme (primo posto assoluto in Europa e il doppio dell’Italia che viene al secondo posto); anche sull’eolico ci sono forti contrasti soprattutto da parte delle comunità locali, le quali temono che l’impianto di altre centinaia di turbine, oltre a disturbare gli insediamenti umani nelle loro vicinanze, possa deturpare il paesaggio. Ma questi aspetti della questione energetica e le relative contrapposizioni politiche, al momento, sono temi condizionati dalla campagna elettorale per le imminenti elezioni di settembre.

Parlando e pedalando abbiamo raggiunto Hof senza (quasi) accorgerci della “terribile salita” che J. ci aveva prospettato e che si è rivelata sì impegnativa per la sua lunghezza, ma certo meno aspra delle altre incontrate oggi.

Hof è una città piuttosto grande e moderna, anche se conserva l’immancabile Altstadt medioevale; ricostruita nelle parti danneggiate durante la II Guerra Mondiale; per la sua posizione vicino al confine con il Land della Sassonia e con la Repubblica Ceca è stata, a quanto mi dicono, un punto di intenso transito dei fuggiaschi d’oltre cortina.

La struttura che ci ospiterà questa notte è l’Hotel Am Kuhbogen, non più un Gasthaus di paese, ma un vero e proprio albergo in centro città. Solo che al momento dell’ assegnazione delle camere, viene fuori che solo una delle stanze risulta prenotata, nonostante Lothar si affanni a produrre prove contrarie; la discussione si protrae per una buona ventina di minuti, mentre noi ce ne stiamo accampati sugli scalini davanti alla Reception, ma l’attesa mi pare poco giustificata, visto che ci sono numerose camere disponibili (ma quanto sono fiscali 'sti teteschi!); e rimediare adesso alla prenotazione eventualmente mancante non mi pare un problema; infatti alla fine ci viene assegnata una stanza, tra l’altro molto ampia, dotata di ogni confort, caccia alla zanzara compresa, che J. non si lascia sfuggire (la caccia, perché la zanzara continuerà a ronzargli intorno tutta la sera).

A tavola mi raccomandano un piatto tipico (per la verità non proprio del posto, in quanto svevo d’origine) e particolarmente nutriente necessario dopo le fatiche della giornata: Käsespätzle (una sorta di pasta all’uovo fatta a mano con un procedimento particolarmente complesso che provano a mimare con effetti comici), seguito da un piatto di verdure grigliate e da un dolce, il tutto innaffiato dall’eterno mezzo litro di birra.

A fine cena, quasi sottovoce e con un tono fra l’ imbarazzato e il confidenziale, Jan mi esprime la sua preoccupazione (ma è anche quella degli altri, a quanto deduco dal loro annuire mentre lui parla) sul mio modo di guidare, stando nel mezzo della carreggiata o zigzagando. La cosa da un lato mi intenerisce, da un altro mi fa sorridere, da un altro ancora mi suscita qualche interrogativo: è vero che di solito, nelle strade di casa, amo la velocità e le discese a rotta di collo, non sono il massimo della prudenza, non pedalo rasentando il lato destro della carreggiata, compio dei sorpassi azzardati, insomma trasgredisco qualche regola, sempreché ciò non implichi veri pericoli per me o per altri; ma qui in Germania mi pareva di essermi comportato più che correttamente, con un’osservanza quasi pignola e pedante delle norme; oltretutto, concludo, se viaggio un po’ in mezzo di strada, è proprio per cautelarmi prudentemente dalle portiere delle auto che all’improvviso vengono aperte. Non credo di essere riuscito a convincerli e a tranquillizzarli (ma se avessero conosciuto cosa è realmente il traffico in Italia e quanto polemico ai limiti dell’ aggressività è il rapporto tra i vari utenti della strada…); comunque mi riprometto di essere (beh, provare ad essere) più cauto in futuro.

La serata si conclude con una passeggiata nella Altstadt dove troneggia suggestiva per l’illuminazione dal basso, la Marienkirche, con ai lati della facciata le sue due torri-campanile che in alto si dissolvono nel buio della notte senza luna. Ma la sera è ventosa e presto ci si ritira in camera

Inutile proporre a J. di dormire con la finestra aperta per combattere il caldo. Nel dormiveglia, lo sento combattere a cuscinate contro vere o presunte zanzare che ronzano non facendolo dormire. Mi basta questo per consolarmi della mia semi-sordità

Percorsi 124 km circa in 6h:08, superate varie alture per un totale di 1240 m. in salita e 1250 in discesa

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4 giorno: Hof - Geithain

Se stanotte J. ha lottato contro le zanzare, io me la sono vista con gli scricchiolii del mio letto: la stanza era davvero spaziosa, predisposta per tre persone, solo che ieri sera, dopo aver lavato la mia roba, l’avevo appoggiata distrattamente su uno dei tre letti e, quando me ne sono accorto, questo era ormai umido; perciò mi sono trasferito su quello restante, che aveva le doghe centrali cigolanti; così ogni volta che l’indolenzimento alla spalla mi faceva cambiare posizione, iniziava un concerto di crepitii e scricchiolii.

Per fortuna una buona colazione è capace di supplire anche alla fame di sonno, per cui, mangiando per due, probabilmente mi premunisco pure contro l’eventuale insonnia della notte che verrà; detto fatto aggiungo al mio piatto anche un po’ di appetitosa insalata russa, delle fette di formaggio misterioso e perfino un uovo sodo (Lothar, di regola ne fa fuori almeno un paio…).

Così zavorrato parto per la tappa n° 4, che si concluderà a un centinaio di km da Dresda, il traguardo finale. Dovrebbe essere una tappa di lunghezza inferiore a 120 km e prevalentemente in discesa, ma ho imparato a non illudermi: fare almeno una decina di km in più è fisiologico e, anche se la quota d’arrivo sarà inferiore a quella di partenza - come mi assicura J. mostrandomi i grafici sul suo smartphone - ci sarà nel mezzo la solita dose di saliscendi; ormai ho pienamente verificato quanto sia esatto l’assioma di Paolo secondo cui in Germania non esistono pianure.

E infatti basta uscire dall’albergo che dopo una discesa a freni tirati ci tocca riprendere quota altrettanto bruscamente in mezzo allo sfrecciare di auto e moto lungo la strada principale. Usciamo finalmente dalla periferia della città e puntiamo decisamente verso Nord. Come ieri il cielo è velato e c’è un vento discretamente teso e fresco che mi fa gelare il sudore addosso; così, per cercare di scaldarmi mi metto in testa al gruppo a tirare, ma i muscoli sono ancora freddi o forse la digestione dell’ uovo sodo (e di tutto il resto) è più laboriosa del previsto. Sta di fatto che faccio parecchia fatica anche a pedalare in pianura. Ad un bivio poi, fraintendendo le indicazioni ricevute, prendo la via sbagliata e devo tornare indietro e raggiungere gli altri arrancando a lungo per una salita. Dopo tre giorni in cui le mie gambe si sono comportate egregiamente, oggi evidentemente è un momento no; beh, anche i grandi campioni hanno la loro giornata nera, no?

Costeggiamo un lago stretto e lungo (o forse sono due oppure è solo un fiume che si amplia tra due valli) e raggiungiamo la città di Plauen, ma, senza visitarla, ne attraversiamo solo la periferia. Mi limito a inviare un sms a Paolo che due mesi fa esatti, durante il suo viaggio solitario verso Capo Nord, ha sicuramente intersecato a Plauen la strada in cui mi trovo ora io. Mi sembra così di recuperare in qualche modo una briciola di quel viaggio che non ho potuto fare, anche se il suo di allora e il mio di ora non sono confrontabili per itinerario, meta finale e distanze percorse.

Siamo entrati in Sassonia già da un po’, ma i paesaggi si susseguono senza mutamenti apparenti: ancora campi di grano, boschi, altopiani, vallate, colline; è, questa, una Germania che sembra non finire mai, o forse sono io a vederla così oggi che mi sento più affaticato del solito.

A grande richiesta andiamo in cerca di un caffè o un biergarten per la pausa cappuccino di metà mattinata, ma sembra che siano tutti spariti. A un certo punto la strada si apre su un ampio lago; tra la strada e la riva ghiaiosa si stende un bosco rado di alberi ad alto fusto e querce che ospita un resort; scendiamo al lago, dove troviamo camping, bungalow, un caffè-ristorante e una decina di pedalò in secco sulla riva; ma di persone, nessuna traccia: tutto chiuso. Non ci resta che fare qualche foto al lago, che poi è un bacino artificiale costruito per produrre energia idroelettrica, e ripartire in cerca di un bar. Neanche un km dopo troviamo un’ insegna che indica un Imbiss, ma non abbiamo miglior fortuna: anche questo è chiuso. Il malumore è in linea col colore del cielo che è ora di un bel grigio plumbeo con sfumature violacee o antracite. Non c’è niente di meglio che non poter disporre di un bene per desiderarlo ancor più intensamente; se poi il bene è rappresentato da qualcosa connesso con i bisogni essenziali dell’uomo, come il mangiare o il bere, il desiderio diventa necessità, la necessità urgenza, l’urgenza crisi e la crisi panico: tutti, compreso il mio stomaco in cui fluttua ancora da qualche parte un uovo sodo, avvertono l’ impellenza di trovare quanto prima una fetta di Quarkkuchen e un cappuccino.

Intanto si è messo a piovere all’improvviso, sorprendendo tutti senza darci modo di indossare in tempo mantelline e copri zaini. Sulla strada viscida e sferzata da un vento obliquo, procediamo lentamente per vari km battendo la campagna e i (pochi) paesini che incontriamo alla ricerca di qualche Cafe; ma non dev’essere il giorno fortunato, oppure questo tipo di esercizi prevede il turno di chiusura di mercoledì.

Finalmente troviamo un centro urbano più grande, dal nome impronunciabile (di quelli con 6 o più consonanti di fila), Netzschkau. Speranzosi vi entriamo prendendo in direzione del centro una strada a senso unico ma contrario, io e Lothar su un marciapiede (che spesso in Germania viene usato lecitamente come alternativa alle piste ciclabili), J. e Jan sulla carreggiata, fidando nel fatto che dove c’è la “zona 30” le bici possono procedere contromano; ma la strada oltre che scivolosa è anche in ripida discesa e oltretutto con una stretta curva in fondo. È sufficiente che un’auto salga su tagliandola al centro e che J. l’affronti allargandosi un po’ troppo baldanzosamente e, schriiik, l’evitabile diventa inevitabile. Nessuno si fa male, ma dall’auto un ottuagenario esce zoppicando e con la testa fasciata; lì per lì la mia esterofilia mi fa attribuire la fasciatura alla rapidità ed efficienza dei servizi sanitari tedeschi, poi diventa chiaro che l’omino era messo male di suo già da prima; comunque stare fermo in mezzo di strada sotto la pioggia non è che gli faccia molto bene, tanto più che il danno si risolve in una strisciata nera causata dal nastro del manubrio e subito sparita con l’aiuto della pioggia e di un fazzolettino e in un’ ammaccatura men che millimetrica, praticamente invisibile. J. resta imperturbabile e fornisce i dati personali e della sua ciclo-assicurazione (ma come sono previdenti, ‘sti teteschi!), ma la moglie dell’omino esce dall’auto e anziché curarsi del marito, rimasto bloccato e immobile sotto l’acqua, inizia a questionare - peraltro in forma teutonicamente rispettosa, ma decisa - usando molti termini pieni di K, TZ, STR, NZ, W,F, KL, SCH, che rendono tanto espressiva e musicale la lingua tedesca. La scena è surreale, ma anche un po’ bagnata e finalmente sul teatrino cala il sipario e l’improvvisata compagnia si scioglie.

Riprendiamo il cammino con un po’ più di prudenza, ma anche di umidità e fame; d’altra parte ormai si è fatta davvero l’ora di pranzo. Dopo essermi fatto attrarre, come Odisseo dalle sirene, dall’insegna accesa del Ristorante “Roma”, chiuso, finalmente approdiamo ad una minuscola pasticceria che riempiamo completamente con le nostre persone e gli zainetti. Seduti all’unico tavolino ci saziamo a volontà di cappuccini e dolci, scegliendo tra pretzel, krapfen, käsetorte, gugelhupf, schokoladenbrezel, schwarzwalder kirschtorte, e chissà che altro, in cui l’ingrediente più light sembra essere la panna, ma abbiamo bisogno di calorie e io personalmente non mi tiro indietro, anche se J. si sente in dovere di precisare che non tutti sono prodotti tipici della pasticceria sassone, come se io davanti a dei dolci, oltretutto affamato, fossi il tipo da farmi certi scrupoli.

Avanti ancora; dopo pochi km, a Mylau, incontriamo un’altra salita micidiale, che un cartello preannuncia al 18%, ma io non ci casco più e infatti a fine salita la verifica mi dice che la pendenza si attesta poco oltre il 10%.

Dopo Mylau, Werdau, Crimmitschau, Glauchau, etc. (dev’essere di moda il suffisso -au, da queste parti) arriviamo a Weidensdorf. Qui una serie di lavori in corso ci costringe a delle deviazioni, facendoci compiere qualche giro di troppo e fermandoci spesso a chiedere: lo smartphone di J. si è ammutolito misteriosamente e non gli dà più indicazioni a voce, forse per un guasto all’auricolare oppure a causa della pioggia presa. Jan allora tira fuori una cartina dalle sue borse e si mettono tutti e tre a consultarla, ma senza gran successo, evidentemente, se alla fine sono costretti a telefonare ad amici e parenti perché cerchino sui loro pc la strada giusta e gliela comunichino. Così J. sul Samsung pesca come può il nome di una località, lo passa a Lothar che tramite cellulare chiede, probabilmente al fratello a Dresda di verificarlo, poi restituisce le informazioni sul percorso a Jan, che le verifica sulla cartina; se va bene il turno passa nuovamente a J., altrimenti stop e ritorno alla casella di partenza. In questo strano gioco dell’oca, non comprendo una parola di quel che dicono, ma dai toni concitati, vedo che sono un po’ tesi; l’unico che, oltre a non capire niente, non fa nemmeno niente, anzi ridacchia sotto i baffi per questa inaspettata defaillance della tecnologia, sono io, consapevole di sfruttare passivamente gli sforzi altrui e di essere un ingrato nei confronti di quel povero smartphone che finora ci ha risolto ogni problema. Finalmente uno del posto ci dà una mano e ci toglie dall’impasse, spiegando da dove passare. Si riparte più sereni, ma intanto Uomo batte Macchina 1 - 0 !

Altri villaggi, altri appezzamenti coltivati, altri prati, altri scollinamenti; tutto sembra ripetersi senza particolari novità, o forse sono io che, ormai al sesto giorno di Germania, mi sono assuefatto. Eppure qualcosa di diverso c’è: forse le colline si sono arrotondate, forse i tratti pianeggianti sono aumentati,o forse sono i colori caldi della terra riarsa, dopo la mietitura, a dominare; ma non sono convinto. Poi arrivando in un villaggio senza nome, quattro casupole nel folto di un bosco che potrebbero andar bene per ambientarci la fiaba di Hänsel e Gretel, capisco cosa c’è che non va: queste costruzioni e quelle viste di recente sono diverse, non tanto per le dimensioni o la forma, quanto per l’aria dimessa che hanno: sono tutte intonacate di un colore grigio spento, lo stesso degli infissi, quasi mai affiorano dai muri le travi di legno della struttura a graticcio, scarseggiano i vasi da fiori e manca del tutto qualunque elemento decorativo; insomma l’impressione generale è quasi di abbandono o miseria. Mi spiega J. che questa è in effetti una zona povera, che a differenza di altre non si è ancora risollevata dalla condizione di arretratezza in cui versavano città e campagna sotto il regime comunista della DDR: prima del 1989 era raro che un privato potesse permettersi di restaurare e curare periodicamente la struttura in legno delle case medioevali o comunque molto vecchie, per cui preferivano adottare la situazione meno costosa di coprire il legno con cemento o intonaco; ed anche questi erano disponibili in un solo colore, il grigio appunto, che era il più economico, ma rendeva tutte le costruzioni uguali e monotone. Solo dopo l’unificazione e con grande sforzo economico la ex Repubblica Federale Tedesca ha potuto risollevare - e non ancora dappertutto - le condizioni di vita della ex-Germania Est. Nelle parole di J. Lothar e Jan vibra ancora la commiserazione, se non la rabbia per quel periodo oscuro e greve della loro storia, che probabilmente noi italiani, facciamo oggi fatica a comprendere appieno.

Prima di lasciare quest’area depressa e deprimente, ho l’occasione di vedere per la prima volta da vicino, quello che è stato il vanto (si fa per dire) della limitata industria automobilistica della DDR; nel cortile interno di una abitazione mi colpisce una insolita macchia di colore: è una mitica Trabant, di colore blu, tirata a lustro; dev’essere stata, almeno agli inizi, l’orgoglio del suo proprietario, anche se oggi la cilindrata, le prestazioni e le dimensioni ridotte (ricorda, ma non in meglio, la nostra vecchia “Bianchina” degli anni ’50-60), insieme alla carrozzeria in plastica e ad un discutibile livello di affidabilità (vituperato forse più di quanto meritasse) ne fanno il bersaglio dell’ironia e dello scherno di molti contemporanei.

Sono già le 14 passate e insieme alla batteria del Samsung che si è definitivamente scaricata, è ormai a secco anche il nostro stomaco, perciò torniamo cercare un biergarten, in cui mangiare un boccone, ma l’impresa si rivela impossibile: ci segnalano il ristorante-pizzeria “Dolce Vita” gestito ovviamente da un italiano (come i tre quarti di questi esercizi in Germania) quasi omonimo del nostro Capo dello Stato, ma lo troviamo irrimediabilmente chiuso. Alla fine - e siamo fortunati - ci dobbiamo accontentare di un chioschetto davanti a un centro commerciale, dove gli altri rimediano un hot-dog e io un piattino di patate arrosto ripassate -pare- nella pancetta. J. si sente responsabile del fatto che io debba venir meno ai miei principi alimentari, ma lo rassicuro: non sono un talebano del vegetarianismo e per una volta, in situazione d’emergenza, posso fare un’eccezione, tanto più, poi, che la pancetta è invisibile, seppure c’è. Da bere Apfelschörle per tutti. Intavoliamo una chiacchierata sull’essere vegetariani, argomento a cui J. si mostra sensibile e forse, ma è solo un’impressione, sente scalfito quel complesso di superiorità che spesso i popoli anglosassoni hanno nei confronti degli italiani, dei quali amano il Paese, il clima, i paesaggi, l’arte, ma ammirano assai meno gli abitanti, secondo l’icastica espressione “un Paradiso abitato da diavoli” che viene erroneamente attribuita a Goethe. Perciò, quando spiego che le mie scelte dietetiche non derivano da necessità sanitarie o da preferenze del gusto, ma dal cercare a modo mio, di mettere in pratica dei principi, pur tra mille contraddizioni e soprattutto senza la pretesa di avere la verità in tasca, lui risponde un po’ esitante, come impreparato, scusandosi di “dover” mangiare carne (“e comunque molto meno che in passato”) e ho quasi il dubbio che gli secchi che almeno su certe questioni etiche il piccolo italiano abbia convinzioni più ragionate delle loro.

Dopo un paio di falliti tentativi di percorrere una ciclabile, non potendo contare sul navigatore per orientarsi a ogni piè sospinto nella ragnatela di incroci e stradine, decidiamo di utilizzare Landesstraßen e Bundesstraßen, che in effetti compensano l’essere più brevi, diritte e scorrevoli col pericolo di un traffico intenso e veloce. Infatti, anche se procediamo in fila indiana sul bordo destro della strada, veniamo continuamente investititi dalle masse d’aria che soprattutto gli automezzi più grossi ci rovesciano addosso sorpassandoci a tutta velocità. Il timore di incidenti e la concentrazione sulla guida sono tali che non mi accorgo nemmeno di aver superato i 1.500 km dalla partenza da casa.

Fortunatamente Geithain, la nostra meta di oggi, non è lontana e la raggiungiamo in tempi relativamente brevi. L’ Hotel Leipziger Land è semplicemente superbo: camere spaziose (calcolo, a occhio, 35-40 mq), luminose (una vetrata occupa un’intera parete e una striscia del soffitto) e fornite d’ogni confort, dai cioccolatini sul letto, all’acqua in frigo e, per la prima volta,perfino di bidet. Nella hall una parte della parete è occupata da scaffali su cui sono coricate bottiglie di vini pregiati molti dei quali italiani: Amarone, Corvo, Negramaro, Sassicaia…

Dopo la sistemazione delle nostre cose in camera e le docce di routine, ci incamminiamo verso il ristorante indicatoci dal maitre: è l’ Athen, un ristorante greco (nel campo della ristorazione i greci, al secondo posto dopo gli italiani, sono abbastanza numerosi) in una stradina della parte più bassa di Geithain. Appena seduti, tanto per gradire, un brindisi con un bicchierino di ouzo, poi antipasti e focaccine e per me un vassoio di insalata con feta e olive, ovviamente, greca, seguita da dolci greci e innaffiata da birra (presumibilmente) greca ma comunque in quantità tedesca. Al momento di alzarsi il colpo di grazia sono altri due bicchierini di ouzo. C’è da stupirsi se all’uscita dal ristorante l’andatura è un po’ barcollante? Ad abbassare il tasso alcolemico comunque ci pensa la camminata di ritorno all’albergo: il passo è sostenuto, la salita che porta dal ristorante alla strada soprastante è erta e, in particolare, l’aria è frizzantina, per non dire quasi gelida, a causa di un vento asciutto e teso che ha spazzato via le nubi e mostra in tutta la loro silenziosa lucentezza il pigolio di stelle di questa notte senza luna. Ci si para davanti la scura mole della chiesa di S. Nicola, massiccia e severa con le sue due torri-campanile. La costeggiamo in silenzio, immersi ognuno nei propri pensieri, così come mezzora prima soltanto eravamo loquaci e briosi. Per un minuto avverto - ed è la prima volta in questo viaggio - quella sensazione un po’ agrodolce di solitudine, di lontananza, di nostalgia di un altrove indefinito che sicuramente si trova in uno dei mondi paralleli negatici dal caso o da un dio capriccioso che si diverte a giocare ai dadi con le possibili combinazioni delle situazioni umane …

Poi la luce dei primi lampioni e la strada diritta che conduce all’albergo mi riporta coi piedi per terra. In camera mi addormento con le mani intrecciate sotto la nuca e negli occhi lo spicchio di cielo stellato che intravedo attraverso i vetri sulla parte e il soffitto.

Percorsi 128 km circa in 6h:07, superate varie alture per un totale di 700 m. in salita e 900 in discesa

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5 giorno: Geithain-Weißig

Il risveglio, come spesso accade, è meno poetico dell’assopimento, specialmente se avviene all’alba per un raggio di sole che cerca insistentemente di scassinarti le palpebre, quando avresti ancora tanto da dormire; ma, a parte maledire l’imperdonabile mancanza di tapparelle, non mi rimane altro da fare che alzarmi, lavarmi e anticipare il rito della colazione. In bagno ho l’occasione di registrare un’altra imperfezione: c’è, sì, il bidet, ma l’acqua non esce evidentemente a causa dell’uso ridottissimo e della mancata manutenzione che ne ha favorito l’accumulo di calcare. Meglio così: la realizzazione di un mondo troppo perfetto, ordinato, disciplinato, impeccabile e infallibile sarebbe più inquietante che auspicabile (e i Tedeschi ne sanno qualcosa). Per fortuna (?) è un rischio che noi Italiani non corriamo.

A controbilanciare queste insignificanti defaillances, comunque, ci pensa la sala della colazione; sono le 6:35 quando vi arrivo, è già apparecchiata, ma non c’è nessuno; in effetti - ricordo - il maitre aveva spiegato che la colazione era disponibile dalle 6:45. Mi metto allora a curiosare e osservando i tavoli del buffet trasecolo: allineati in bell’ordine (in prima fila i veterani, cioè i barattoli già aperti, in seconda i rincalzi, quelli ancora da aprire, nell’ultima le truppe di riserva, i doppioni di quelli più richiesti) ci sono la bellezza di 57 barattoli di marmellate, confetture, composte, gelatine, mostarde, ottenute da ben 26 tipi di vegetali diversi, tra cui pomodori, cipolle, zucca, carote, peperoncini, melanzane, menta, ortica, mosto, bacche o fiori o radici di rosa, di acacia, di sambuco, di rabarbaro… Sugli altri tavoli la stessa sfacciata sovrabbondanza di confezioni di yoghurt, the, tisane, preparati a base di cacao e simili; e poi ancora fiocchi d’avena, corn-flakes, müsli… A trattenermi dall’esaminare i tavoli dei formaggi, degli insaccati etc. è il rumore della porta delle cucine che si apre: entra la signorina addetta alla colazione portando con sé una folata di profumo, da svenimento, di croissant e dolci appena sfornati. Guardo l’orologio: sono le 6:45 spaccate, inappuntabile precisione! L’ora successiva è dedicata a far pentire il gestore dell’hotel dell’usanza del breakfast included o quanto meno della colazione a buffet; ma a onor del vero, quando io e gli altri tre compari ci prepariamo i panini da portarci dietro, non abbiamo bisogno di farlo di nascosto, come spesso accade in Italia, dove magari ti guardano male se prendi più di un cappuccino o di un croissant o ti fanno pagare il supplemento, anzi il maitre, che è sceso a domandarci se ci siamo trovati bene, sembra quasi incoraggiarci ad assaggiare questo e quello. E pensare che dovrebbe essere il nostro Paese a saper trattare meglio di ogni altro i turisti, considerando l’importanza che il turismo riveste nell’economia nazionale!

Questo è stato il nostro ultimo pernottamento in hotel, visto che oggi è il giorno conclusivo del tour e stasera dormiremo a casa del fratello di Lothar. Dato che ogni mattina ciascuno di noi a turno ha pagato l’albergo per tutti, facciamo i conti e calcoliamo i rimborsi: la spesa media finale risulta inferiore ai 35 €. Anche considerando che alcune sono state delle vere “occasioni” last- (o first-) minute di cui va a Lothar tutto il merito, non credo proprio si possa dire che il rapporto qualità/prezzo delle strutture tedesche sia mediamente peggiore di quelle italiane equivalenti e lo stesso discorso si può fare per cafè, imbiss e biergarten: ricordo bene le stanze + colazioni squallide a prezzi superiori ai 40 € in troppe città e paesi del nostro “Paradiso” e troppi “diavoli” esercenti di bar, ristoranti o negozi che si credono furbetti autorizzati a spellare il turista “gonzo”, senza accorgersi che i veri gonzi sono loro che così facendo danneggiano la propria categoria, un settore economico essenziale e l’immagine all’estero del loro stesso Paese.

Alle otto siamo in strada, pronti per l’ultima tappa. Anche in questo quinto briefing J. assicura che le salite sono praticamente finite e che nel centinaio o poco più di km che ci separano dal traguardo si passerà dall’attuale quota 300 ai 100 m. di Dresda, salvo la collinetta dove abita il fratello di Lothar; “praticamente”, “poco più” e “collinetta” sono espressioni che non mi rassicurano molto, ma preferisco non indagare. Il vento è calato, c’è il sole sopra un cielo intensamente azzurro e fa già discretamente caldo; ma quali che siano le condizioni climatiche e quelle del percorso, la mia mente pedala già in discesa, sentendo avvicinarsi la fine del tour, con quel misto di nostalgia, allegria e curiosità che si manifestano al concludersi di un’impresa.

La funzione navigatore del Samsung di J. è nuovamente attiva e non abbiamo problemi a lasciare la città e a inoltrarci nella campagna. Nel primo paesino che incontriamo ci fermiamo a osservare una strana stele in pietra rossastra, con delle scritte in caratteri gotici sotto un ricco stemma e simile ad un’altra che avevo intravisto poco prima dell’ingresso a Geithain. Jan spiega che si tratta di una PostSäule tipica della Sassonia cioè di una colonna che riportava i tempi di percorrenza a seconda delle distanze fra le varie località, ad uso dei servizi postali. Le aveva introdotte nel 1700 (quella che ho davanti reca la data 1727) il re di Sassonia Augusto il Forte che aveva fatto percorrere tutte le strade dello Stato (allora più esteso del Land odierno) da dei topografi muniti di una sorta di carriola conta-miglia.

Dopo una buona mezzora, attraversiamo Colditz; ci fermiamo nella piazza principale quel che basta a narrare la storia del suo castello, una bella costruzione rinascimentale adibita a supercarcere durante la II Guerra Mondiale dai nazisti; questi vi avevano rinchiuso alcuni ufficiali inglesi, francesi, americani e polacchi per evitare che potessero fuggire. In realtà vi furono centinaia tentativi di evasione, alcuni riusciti e molti avventurosi e ingegnosi al limite dell’incredibile (dal classico tunnel alla discesa lungo le mura con corde di fortuna, alla costruzione di un rudimentale aliante), la cui storia è stata riportata più volte sul piccolo e sul grande schermo.

Uscendo dalla cittadina, al bivio prendiamo in direzione di Leißnig e di Meißen, lasciando a sinistra la strada per Leipzig. La giornata è davvero splendida e rende giustizia ai colori del cielo, dei boschi e dei prati, grandi distese erbose, interrotte spesso da corsi d’acqua di varia grandezza sui quali si affacciano graziosi villaggi e qualche castello; alcuni di questi, come quelli di Podelwitz o Leißnig, con le loro mura bianche, i torrioni e i tetti conici coperti di ardesia bluastra, evocano le miniature medioevali e rinascimentali. L’impressione di povertà e trascuratezza avvertita ieri in alcuni villaggi si è completamente dissolta: davvero è stupefacente come le scenografie, al pari del clima, siano mutevoli in questa parte della Germania; ma, devo supporre, anche nel resto, se penso all’armoniosa natura della valle del Reno e alle coste sferzate dal vento del Mare del Nord, allo skyline dei grandi centri industriali moderni e all’atmosfera sospesa fuori dal tempo di piccoli centri come Heidelberg, alla quiete un po’ ripetitiva della vita nelle campagne e alla febbrile proiezione verso il futuro di metropoli come Berlino.

Jan (che, se ho ben capito, ha un qualche incarico alle dipendenze di un ministero equivalente ai nostri Beni Culturali), a proposito dell’impressione di minore prosperità della ex Germania Est, si premura di precisare che questa è ancora giustificata in alcune zone soltanto e sempre meno estese: dopo la riunificazione del 1990, infatti, lo Stato tedesco ha investito una notevole quantità di risorse per portare al livello “occidentale” le condizioni di vita e di lavoro della Sassonia e degli altri Länder provenienti dalla ex DDR: i decenni di “socialismo reale” che avevano reso molto bassi e poco competitivi i livelli di produzione economica e costretto i cittadini a una vita austera oltre che limitata sul piano delle libertà civili, avevano creato un notevole divario tra le due Germanie. Il nuovo governo dovette perciò colmare questo divario con ingenti sacrifici finanziari ed economici (dalla conversione alla pari del marco orientale in quello occidentale), alla chiusura o riconversione delle aziende meno produttive, allo spostamento di grosse quantità di capitali verso Est per favorirne il risanamento industriale, ma anche ambientale. Mi piacerebbe chiosare che la Germania, per superare parte delle difficoltà economiche dovute alla riunificazione, ha ricevuto aiuti consistenti dalla Comunità Europea, anche da quei Paesi dai quali attualmente pretende cure da cavallo per risanare i propri deficit; ma poi non ne faccio di niente, per non sembrare polemico.

È stata la Germania occidentale -conclude con un pizzico di orgoglio Jan- a assumersi il maggior peso dei sacrifici per la riunificazione, ma il gioco è valso la candela: quando un tedesco oggi può ammirare ad es. la Frauenkirche di Dresda ricostruita pietra su pietra, dopo le distruzioni belliche e anni d’abbandono da parte del regime comunista, probabilmente pensa a quanti dei suoi soldi e delle sue tasse sono finiti lì, ma subito dopo ne è fiero. “Io non li rimpiango davvero - conclude Jan - ne è valsa la pena. Del resto anche voi dopo l’unificazione dell’Italia avrete dovuto affrontare costi e sacrifici, no?” Non so se la domanda sia ingenua o maliziosa, ma ancora una volta lascio cadere l’argomento per non affrontare temi che da sempre agitano la scena politica italiana, come la questione meridionale di ieri o le velleità secessionistiche di oggi.

Chiacchierando e pedalando in tutta tranquillità, ci imbattiamo in un grande complesso di fabbricati cinto da mura; ma “imbattiamo” non è il termine esatto, dato che nessuna delle località visitate finora è stata “scoperta” per caso, ma è sicuramente frutto dell’attenta pianificazione da parte di J. che voluto alternare soste di natura logistica ad altre storico culturali o naturalistiche. Si tratta del monastero di Klosterbuch che, dei suoi tradizionali edifici, ha adibito la cucina e il refettorio col giardino prospiciente a biergarten. Ed è appunto qui che ci soffermiamo per la consueta pausa cappuccino, divenuta ormai un pretesto per far fuori qualche fetta di torta e il solito barile di birra. Per quanto riguarda me, sempre alla ricerca di nuovi sapori “mi accontento” di una möhntarte (un’ottima torta ai semi di papavero) e di un apfelschörle a cui ne segue un altro all’ holunder (cioè ai fiori i sambuco). Degli altri locali, oltre a quelli di tipo religioso o amministrativo, molti sono occupati da laboratori artigianali in cui lavorano giovani senza tonsura (per la verità non ho scorto nessun monaco finora). Oltre la porta che dà sul retro del monastero si apre un ampio spazio verde delimitato da un rio che scorre placido sotto l’ombra degli alberi: la scena è idillica, ma a me e a Lothar, assai più prosaicamente interessa un gigantesco susino che saccheggiamo a più non posso.

Ripartiamo costeggiando un ampio corso d’acqua: è il fiume Elba che ci farà compagnia fino a Dresda

Dopo averne avvistate da lontano le alte guglie, raggiungiamo la città della porcellana, Meißen, il cui “oro bianco” sotto forma di vasi, tazze, animali etc. ha conquistato l’Europa. Mi spiega J. che questa città può gloriarsi di aver dato vita alla più antica manifattura di ceramica del continente; vorrei replicare che forse è Faenza a poter vantare tale primato, dato che col suo nome francesizzato, faience, viene oggi designato questo materiale in gran parte del mondo; ma forse faccio confusione tra maiolica e porcellana.

In cerca di un locale in cui mangiare un gelato, saliamo bici alla mano lungo la strada che porta nel cuore della Altstadt; prima di raggiungere il centro storico noto una riga con delle cifre che corre orizzontale lungo gli edifici della Hauptstraße. Ne chiedo conto ai miei compagni: è il segno -rispondono- dell’esondazione che nel giugno di quest’anno ha colpito la regione e molte delle città che si affacciano sull’Elba. Ora sembra un fiume lento e tranquillo, ma due mesi fa le sue acque sono uscite violentemente dall’alveo e hanno portato distruzione nelle campagne e sommerso le abitazioni fino a parecchi metri. Mi torna ora in mente di aver letto o saputo dai telegiornali che una imponente alluvione ha colpito quest’area all’inizio di giugno, proprio pochi giorni dopo che vi era passato Paolo nel suo viaggio verso il Grande Nord (lui infatti mi aveva parlato di piogge continue e di strade allagate). Qui, però, a parte quel segno sui muri, nulla fa pensare a tale disastro: le autorità locali e federali, infatti, si sono prodigate da subito nella riparazione dei danni, nei risarcimenti e nella riattivazioni delle attività economiche e dei servizi pubblici. Potrei fare parecchi confronti e commenti, ma per amor di patria mi mordo la lingua.

Prima di ripartire da Meißen, sul selciato della piazza principale noto una placca di bronzo che ricorda come nella primavera dell’89 un gruppo di coraggiosi cittadini si sia riunito qui per protestare contro la mancanza di libertà, dando il via a quella rivoluzione pacifica che portò in breve tempo alla caduta del muro. A ben riflettere, in pochi minuti ho ricevuto un chiaro esempio di come alla base della democrazia concorrano da un lato la sensibilità di governanti che operino non per la conservazione del proprio potere ma per il benessere della società, dall’altro il senso civico (e in questo caso anche il coraggio) dei singoli cittadini, disposti a lottare e a rischiare per degli ideali. Mi pare quanto meno doveroso inserirla nell’ideale bagaglio di foto, annotazioni, ricordi, esperienze, che riporterò a casa al termine del viaggio.

Pedaliamo paralleli all’Elba sull’omonima radweg, affollata di ciclisti, pattinatori e pedoni, specialmente in prossimità di campeggi, biergarten, imbarcaderi, spiaggette. Nel frattempo ci ha raggiunto in bici Norbert, il fratello di Lothar, che è appena smontato dal lavoro e ci è venuto incontro per guidarci fino a casa sua, a Weißig, un sobborgo di Dresden; intanto ci fornisce dettagli sull’alluvione di due mesi fa. Attraversiamo l’Elba e poco oltre, presso il villaggio di Niedergohlis, notiamo le evidenti conseguenze del disastro: tutti gli appartamenti a piano terra sono disabitati e privi di mobili, mentre qua e là alcuni muratori stanno rintonacando le stanze e nei giardini spogli vengono ricollocate o seminate nuove piante. Su un dosso a lato della strada troviamo una panchina, vi salgo sopra in piedi e estendendo al massimo il braccio, sfioro il cartello posto in cima a un palo: recita “Pegelstand - 6 June 2013” e indica il limite delle acque a seguito dell’esondazione. Anche qui, obbligatoria una foto.

Pedaliamo avendo a sinistra il fiume, ingannevolmente mansueto, e a destra terrapieni, siepi o qualche filare di alberi, a determinare uno scenario davvero riposante (quasi come il nostro ritmo di marcia): non per niente, ci ricorda Jan il lungofiume da qui fino a Dresda è stato dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.

E finalmente, a 600 km da Tübingen e a oltre 1500 dalla partenza, si cominciano a intravedere le prime propaggini di Dresda. Siamo arrivati? chiedo a J. “Sì, quasi”, mi risponde. Bene, dico tra me, per una volta i km programmati corrispondono a quelli effettuati; sento che non dovrei fidarmi delle rassicuranti approssimazioni di J., ma se quel “quasi” lo interpreto come se fosse un “proprio”, la colpa è solo mia. Davvero si crede solo a ciò a cui si vuol credere. Il fatto è che comincio ad avvertire la pienezza, se non la stanchezza, di queste due settimane lontano da casa.

Ormai la ciclabile scorre a ridosso della città di cui intravedo prima i sobborghi, poi l’inconfondibile silhouette del ponte Marienbrücke con l’altstadt sulla destra e i suoi monumenti dorati, cupole di vetro, statue alate, guglie e pinnacoli d’ogni tipo. Arriviamo sotto il ponte, ma proseguiamo, lasciandoci man mano sulla destra viali, piazze, giardini, chiese e palazzi monumentali in successione: le mura esterne dello Zwinger, il teatro Semperoper e la cattolica Hofkirche, la Frauenkirche, l’Accademia delle Belle Arti e l’Albertinum, la Brülsche Terrasse e la mole asimmetrica della nuova sinagoga. Di buona parte di esse Jan mi spiega nome e caratteristiche, ma sono talmente tante notizie, e date in così breve tempo, che temo di dimenticarne o confonderne buona parte, anche se approfitto delle frequenti soste per trascrivere frettolosamente un nome o un’informazione. So, comunque che domani andremo tutti insieme in visita alla città e avrò quindi l’occasione di ammirare più da vicino questa che a buon ragione viene definita la Firenze del Nord; il parallelo tra Firenze e Dresda, confermato dalle numerose tracce di arte e cultura italiana trapiantate in quest’area (compresi i cipressi e le ville curiosamente in stile toscano) e sancito ufficialmente anche da un gemellaggio di una trentina di anni fa, risulta perfino rafforzato dalle drammatiche vicende legate allo straripamento dei rispettivi fiumi.

Giungiamo infine sotto un ponte metallico di colore cinerino: <<Lo riconosci?>> mi chiede Jan, ammiccante. Dovrei? È la prima volta che vengo a Dresda, gli rispondo. <<Sì, ma questo è il Blauand!>> mi fa lui con quella sua voce baritonale che mi lascia capire una parola su tre, stupito come se davanti al Colosseo avessi chiesto se è una piccionaia. “Aaaah!” È la mia risposta dal tono ipocritamente ammirato di chi vuol far intendere di conoscere benissimo e di apprezzare qualcosa che nemmeno sa cosa sia. Mi ci vuole un po’ a capire che il famoso “Blauand” altro non è che il Blaues Wunder o Blue Wonder o Meraviglia Blu, come gli abitanti di Dresda hanno ribattezzato il Loschwitzer Brücke. Questa specie di Nona Meraviglia del mondo, che pare costruita da un megalomane con un milione di scatole del meccano, in effetti ricorda in qualche modo nel materiale, nella struttura e nel periodo di nascita una Tour Eiffel sdraiata sul fiume e deve il suo nome al colore con cui era stata verniciata (anche se -racconta Jan- in origine era verde, poi misteriosamente tramutatosi in blu).

Appena siamo riuniti in gruppo coi ritardatari, lasciamo la radweg e saliamo sul ponte, attraversando così ancora una volta l’Elba. Il traffico è notevole, ma per fortuna il ponte prevede sui due lati un percorso pedonale e uno ciclabile;.una volta sull’altra riva comincio a guardarmi intorno in attesa che mi venga annunciato l’arrivo a casa di Norbert, ma gli altri continuano a pedalare e chiacchierare imperterriti come se il tour fosse appena iniziato. Oltretutto la strada comincia a salire: sapevo che non potevo fidarmi di J. e dei suoi “Siamo quasi arrivati”. <<Stanco?>> mi fa dopo un km di salita; <<No, perché?>> gli rispondo (fossi stato Pinocchio, il naso mi si sarebbe infilato tra i raggi) e accelero raggiungendo Norbert che guida il gruppo. La strada è larga e presenta lo spazio anche per le rotaie del tram, eppure sale decisa e sembra non finire mai; anche se cerco di nasconderlo, ho il fiatone, ma non mi va di mollare, perciò stringo i denti per non perdere la prima posizione. L’altimetro mi segnala che abbiamo lasciato l’Elba 150 m. più in basso, ma si continua a salire. Due, tre, quattro km, ma si va avanti. Finalmente una sosta… macché è solo per fare una telefonata; avanti di nuovo. Penso a Norbert che tutte le mattine che Dio manda in terra, va in ufficio in bici (lavora nella zona nord di Dresda) e il pomeriggio torna su, affrontando la discesa (e il gelo, d’inverno) e poi la salita (e la canicola, d’estate). Finalmente la strada impiana. Cinque, sei km. Siamo nel verde della zona residenziale di Dresda, anzi non è neppure più Dresda, precisa Lothar, bensì Weißig. Sette, otto km; finalmente ci fermiamo, stavolta siamo arrivati davvero.

Baci, abbracci, saluti, presentazioni; poco dopo arriva anche Gabi che è partita ieri da Jettingen in auto, portando tra l’altro tutto quello che avevo lasciato a casa di J. e in più un grosso cartone da ciclista in cui impacchettare il mio bolide per caricarlo sull’aereo. Il primo volo della Ryan Air per Pisa parte domattina presto da Leipzig, a oltre 150 km da qui; ma non ce la farei a fare la prenotazione dell’aereo, preparare le mie cose, imballare la bici e partire stasera stessa cercando un qualche alloggio di fortuna in prossimità dell’aeroporto, né è pensabile che possa arrivare in tempo all’imbarco partendo domattina. Domani d’altra parte è prevista la visita di Dresda e dintorni (a cui sono interessati anche J. e Gabi che la conoscono poco) e non avrebbe senso essere venuti fin qui senza poi cercare di conoscere un po’ la meta finale del viaggio. Vuol dire che prenderò il prossimo volo lunedì mattina; quindi faccio qualche calcolo e prevedo di partire da qui sabato mattina in bici, raggiungere Leipzig nel pomeriggio, cercando un alloggio vicino all’aeroporto e impiegare la domenica visitando la città. Quando lo comunico a J. & C, i miei amici lo escludono tassativamente e mi espongono l’alternativa che hanno già elaborato e che è una “proposta che nun se pò rrifiutare”: resterò con loro fino a lunedì mattina, quando all’alba J. mi porterà all’aeroporto in auto. Mi pare eccessivo e stavolta mi oppongo io; dopo una lunga contrattazione ottengo di farmi accompagnare lunedì mattina alla stazione di Dresda e lì prendere un comodo treno per l’aeroporto. Sopraffatto dalla loro gentilezza, prendo possesso della mia stanza, vicino a quella di Lothar e J. nel seminterrato: sulla porta è affisso un disegno a pastello in cui campeggia un cuore e la scritta “Herzlich willkommen”, nel caso che mi fossero rimasti dubbi sull’ospitalità tedesca; la stanza è ampia, provvista di letto, tavolo da studio, divano e cyclette & tapis roulant (che non ho nessuna smania di adoprare) e si affaccia anch’essa sul giardino, ripetendo a grandi linee la struttura dell’abitazione di J.

Dopo la doccia, necessaria più che mai, l’appuntamento per tutti è nel giardino dove su un tavolo addobbato con ghirlande e festoni, Magda, la moglie di Norbert, ha apparecchiato due torte gigantesche “BIKERS WELCOME IN DRESDEN”, sta scritto sulla prima, “FOR THE HARDEST BIKERS J Y ” sulla seconda. Immancabili, c’è bisogno di dirlo?, i boccali di birra.

Secondo l’usanza germanica, in casa tutti stanno senza scarpe, usando zoccoli o restando a piedi nudi. Anch’io mi adeguo depositando le scarpe nel vestibolo all’ingresso e giro con i calzini ai piedi. Quando ci hanno chiamato a raccolta in giardino non ho considerato che il pratino era bagnato, così mi sono inzuppato ben bene i calzini che hanno aggiunto un delizioso profumo di funghi porcini alla mia già sofferta e ascetica figura di pedalatore transalpino, ma non potevo certo abbandonare la compagnia (e le torte) per una prosaica questione di calzini umidicci. Scorrono le birre e inutilmente scelgo quelle di gradazione meno alta; il tasso alcolemico si innalza bruscamente quando assaggio Hugo (un cocktail a base di Prosecco, Holunder, cioè succo di sambuco, acqua brillante, ghiaccio e una foglia di menta). Per fortuna non devo pedalare e posso rimanere seduto. Non facciamo in tempo a digerire le torte, che inizia la cena. In onore della nazionalità dell’ospite straniero arriva un fumante vassoio di spaghetti (perfettamente al dente!) al pomodoro e parmigiano a cui faccio onore quanto posso, ma non più che al successivo piatto di patate in salsa acida e gurken, cioè cetrioli. Veramente buono, me ne farò dare la ricetta da Magda o da Gabi, come pure di qualche altro piatto assaggiato qui in Germania. Il bello di un viaggio fuori d’Italia è anche il gustare pietanze sconosciute o inusuali: non ho mai capito quegli italiani che all’estero , per “non rischiare” o semplicemente per ottuso nazionalismo culinario, frequentano solo ristoranti italiani o si limitano a ordinare pizza, spaghetti o bistecca e patatine evitando accuratamente i piatti locali.

Nonostante le zanzare e l’aria fresca della sera (ma anche l’indolenzimento del fondo schiena, che è rimasto attaccato per ore prima al sellino e poi alla panca del tavolo in giardino) restiamo a chiacchierare fino a tardi, parlando un po’ di tutto e soprattutto di Italia: Lothar, J. e Gabi, da insegnanti, si mostrano interessati al nostro sistema scolastico e alle sue politiche di integrazione dei portatori di handicap e degli alunni svantaggiati (e qui, magari esagerandone un po’ i meriti, mi faccio forte della mia esperienza di insegnante in una scuola sperimentale che tra le prime in Italia ha innovato in questo settore); ma poi, quando le birre e l’ora tarda abbassano le difese della discrezione e della delicatezza, un po’ tutti finiscono per mostrarsi interessati a quell’ immagine dell’Italia che maggiormente intriga lo straniero: riuscire a capire come nel Paese di Leonardo e della Montalcini, di Marconi e di Galilei, di Machiavelli e di Einaudi possano prosperare certi personaggi, come certi comportamenti pubblici e privati vengano non solo tollerati, ma addirittura premiati col voto o, più semplicemente, con la notorietà presso noi concittadini. 

Certo, i miei amici non fanno di tutte le erbe un fascio, sono lontani dalle generalizzazioni superficiali o dall’identificazione, sulla falsariga dello “Spiegel” di qualche decennio fa, dell’Italia con le tre M di Mafia-Mandolino-Maccheroni; ma troppo vistose per ignorarle sono alcune recenti vicende di cronaca italiana, tanto più quando vengono in qualche modo coinvolti i Tedeschi: ad es. lo smaltimento dei rifiuti napoletani in Germania, le truffe alla Comunità Europea, la strage di ‘ndrangheta a Duisburg, o il naufragio della “Costa-Concordia” (su cui erano imbarcati oltre 500 passeggeri tedeschi). 

Del resto, il comportamento del comandante Schettino è solo un esempio di cialtroneria, quasi un pretesto per poi spostarsi, in modo fin troppo scoperto, nel campo dei personaggi politici; e tra questi ultimi chi sia il primus sine paribus è fin troppo evidente, considerando anche la ruggine tedesca nei suoi confronti per gli inqualificabili epiteti da lui rivolti a “frau Angela”; ma anche Grillo risulta ben piazzato nella loro Shit-Parade dei nostri politici: l’ estemporaneità e il populismo, di qualunque colore, che da noi sono spesso considerati con indulgenza e simpatia, quasi un’ espressione del genio italico, vengono visti con apprensione dal disciplinato e concreto civis Germanicus medio, tanto più se un tantino conservatore come i miei interlocutori.  

Messo alle corde dalle loro domande quasi accorate, annaspo un po’, mi sento nudo nella mia italianità e, in qualche modo, complice anch’io delle malefatte del "caro leader"; provo a spiegare, a distinguere, mi rifaccio alla storia di un’Italia ancora troppo giovane (ma è una mossa sbagliata, visto che l’unità nazionale tedesca è posteriore alla nostra di un decennio), ai troppi poteri o interessi, occulti o criminali, che sono dietro a mezzo secolo di trame, stragi e depistaggi, (però mi rendo conto che gli ingredienti della mia narrazione sembrano quelli di un noir di serie B), all’eccesso di devozione al proprio “particulare” e alla mancanza di senso dello Stato (ma è proprio quello che dovrei spiegare ed è tautologico usarlo come giustificazione), alla troppa credulità verso i vari demagoghi e uomini della Provvidenza. Lothar ammette che sì anche loro si sono fatti colpevolmente trascinare da Hitler, poi però da quella tragedia hanno imparato, dando vita a un Paese e a una coscienza nazionale completamente differenti, decisi a non ripetere gli errori del passato e a non seguire più nessun pifferaio. Già in altre chiacchierate, del resto, hanno dato prova di onesta autocritica e condannato senza mezzi termini ideologia e prassi aberranti del nazismo.

Alla fine, distrutto anche dalla fatica di dover tradurre concetti complessi in una lingua non mia, mi arrendo, ben consapevole di non essere riuscito a convincerli del tutto con questa mia accalorata ma sconnessa arringa difensiva; però vengo nuovamente tirato in ballo dalle domande se anche a noi Italiani, come ai Greci, piacerebbe “vedere impiccata la Merkel” e cosa si pensa in Italia della politica del rigore e della spending review e perché poi un politico “serio, onesto e competente” come Monti (è l’unico –mi par di capire- che gli va a genio) sia durato solo un anno, e come mai i rifiuti di Napoli o Palermo vengano dirottati a caro prezzo in Germania e perché… Nessuna di queste domande è avanzata con tono saccente, accusatorio o malevolo, ma col sincero desiderio di capire qualcosa di un mondo per loro incomprensibile; ciò non toglie che il mio imbarazzo, nel ruolo non richiesto di ambasciatore del mio Paese, sia più che evidente; tanto che a un certo punto, forse spinti da un intento riparatorio, spostano la conversazione sui problemi della Germania e sulle colpe del comunismo così evidenti nella ex DDR; anzi riconquisto un mio momento di gloria quando si accorgono che conosco e apprezzo film come “La vita degli altri” e “Goodbye, Lenin”. 

Poi, finalmente, giunge l’ora di andare a dormire. Mentre mi rilasso prima di prendere sonno, ripenso a questa quindicina di giorni fatta di pedalate, sudore e fatica, sì, ma pure di incontri, di luoghi sconosciuti, di sole e nuvole anche metaforiche, di lunghi silenzi e di grandi chiacchierate. Al termine di un’esperienza ci si chiede cosa si è imparato, in che modo si è arricchita la nostra interiorità; io so di aver visto molto, sicuramente di aver appreso qualcosa, magari di essere una briciola più saggio di quando sono partito, ma ci penserò forse domani. Dopo tante parole e ore spese stasera a discutere di cose serie, per conciliarmi il sonno con leggerezza mi voglio divertire a elencare, così come mi vengono in mente, tutte le piccole, banali infrazioni alle mie abitudini quotidiane a cui mi ha spinto questo tour: fare a meno del PC per più di due giorni di seguito, parlare una o più lingue straniere, alzarsi e partire molto prima del solito, mangiare insalata, formaggio e uova sode a colazione, indossare i pantaloncini da bici senza slip, viaggiare leggero con pochissime cose, vivere con maggior lentezza e minor nevrosi un’esperienza di viaggio in bici, fare ampio uso di piste ciclabili, percorrere senza stravolgermi anche tratti di sterrato, rinunciare a borse e portapacchi a favore dello zaino, pedalare sotto la pioggia, scoprire bevande e cibi nuovi, bere birra a litri, dormire con un coltrone al posto del lenzuolo anche ad agosto, dormire in camere senza tapparelle… a proposito di dormire, buonanotte!

Percorsi 118 km circa in 5h:27’, superate varie alture per un totale di 600 m. sia in salita che in discesa

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Epilogo

Il venerdì, il sabato e la domenica sono stati giorni intensi, se non addirittura turbinosi, in cui i miei anfitrioni hanno cercato di rimpinzarmi stomaco e mente di tutte le prelibatezze culinarie, architettoniche, artistiche e paesaggistiche che il soggiorno poteva offrire: oltre a una grandinata di piatti e bevande i cui nomi o ricette mi hanno riempito il taccuino (Apfel-, Holunder- o Wein- schörle, Waldmeisterschnaps, Hugo, Most, Radlerbier, Suppen, Spätzle, Salat, Eintopf, Schmand, Quark, Gebäck, Kuchen, Torten…), ho battuto a tappeto il cuore dell’Altstadt di Dresda partendo dal luogo simbolo della città, lo Zwinger fino al Neumarkt e ai giardini oltre la Brühlsche Terrasse, è stata poi la volta della Neustadt notturna con la sua movida e le sue birrerie in cui far le ore piccole; ho visitato lungo l’Elba il parco di Pillnitz (che porta ancora i segni della devastazione delle acque di due mesi fa) con il caratteristico castello barocco, che i sovrani sassoni raggiungevano in gondola (!) da Dresda per trascorrervi le vacanze estive; ho compiuto escursioni a piedi, più brevi ma non meno impegnative di quelle in bici, in alcuni parchi nei dintorni di Dresda e perfino una a Hrensko, nella vicina Repubblica Ceca, intervallata da un percorso in barca nelle gole Edmundova Soutěska. A chiudere il cerchio di queste due movimentate settimane, non poteva mancare una mini percorso ciclistico (una dozzina di km appena, con tanto di salita e discesa al 10%) compiuto sotto un allegro acquazzone estivo il pomeriggio antecedente alla partenza.

Infine, la mattina del ritorno, dopo una levataccia all’alba e una colazione in cui Magda ha fatto trovare oltre al solito ben di dio, anche un panino, un frutto e una stecca di cioccolata per il viaggio, io e J. siamo partiti in auto, diretti alla stazione ferroviaria di Dresda; qui il treno è arrivato con 45 secondi di ritardo (il che ha indotto J. a scusarsi di questa macchia imperdonabile sulla proverbiale puntualità tedesca!); abbiamo caricato il grosso scatolone di cartone in cui la sera prima avevamo impacchettato la bici e le borse e ci siamo salutati fraternamente, dandoci appuntamento all’anno prossimo, magari per un tour in Italia. Il treno è partito puntualmente e puntualmente è arrivato a Leipzig; qui, con un po’ di fatica ho trascinato il mio voluminoso bagaglio fino al treno per l’Aeroporto. Al check-in e al gate d’imbarco sono riuscito a fare abbastanza confusione tra verifica del biglietto, consegna dello scatolone e ricerca dei documenti che si erano infilati tra le pagine di un libro, ma insomma, in un modo o nell’altro ce l’ho fatta a salire su quel benedetto aereo e a raggiungere Pisa dove sono stato subissato di baci e uggiolii, rispettivamente di moglie (a cui la mia lunga assenza evidentemente aveva fatto capire di quale grand’uomo era stata privata) e cane (che mi rimproverava di avergli telefonato troppo poche volte).

Percorsi con J., Lothar e Jan 625 km in 5 giorni (29h:26’) alla media di 21 km/h. superato un dislivello totale di 4.500 m. circa

Percorsi in tutto il viaggio 1528 km in 11 giorni (70h:33’) alla media di 21,6 km/h superato un dislivello complessivo di 11.500 m. circa

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Conclusioni

Spesso, durante un viaggio, nei momenti più difficili, quando senti di non farcela più e pensi di essere sul punto di rinunciare, ma anche prima di partire o dopo l’arrivo, mi sono domandato quello che più o meno esplicitamente ti chiedono tutti quando affronti l’argomento: “Ma chi te lo fa fare? Cosa è che ti spinge veramente a questo tipo di imprese? Cosa vuoi dimostrare? E a chi? E perché?” La risposta non l’ho mai trovata, perlomeno una risposta unica, solo tante possibili, parziali risposte tutte variamente collegate tra loro: bisogno di raschiarsi di dosso la pelle morta della routine quotidiana, di affermare la propria individualità, di mettersi alla prova nel fisico e, attraverso questo, nella mente, di trovare il modo per restare solo con se stesso, di aggiungere un valore, un senso alla propria esistenza, di affrontare il brivido dell’ignoto, di sentirsi vivo in un’avventura, di sconfiggere i fantasmi dell’età, di affermare un modo diverso, più ecologico, più umano, di fare vacanza.

Sono tutte, a ben vedere, risposte soggettive e che attingono alla sfera personale, con limitate proiezioni verso il mondo esterno, quasi ego-centriche, in quanto marchiate dal senso della propria solitudine individuale anche in un mondo pieno di gente.

Ma ce n’è un’altra, di segno opposto, scoperta nel ciclo-pellegrinaggio a Santiago e confermata in quest’ultimo viaggio in Germania: il bisogno di riscoprire l’umanità e la fraternità, cioè quanto di noi c’è negli altri e degli altri in noi e di tener viva la fiammella che al di là delle differenze di lingua, usanze e credo religioso o politico, ci fa avvertire meno il freddo della nostra esistenza effimera, ci fa sentire meno soli, ci accomuna rendendoci partecipi dello stesso Progetto, sia questo di origine divina o solo determinato dal Caso. Con l’ottimismo della volontà, continuo a credere che perfino nell’efferato nazista dei campi di sterminio di ieri o nel più ottuso talebano di oggi, arda, pur se repressa e confinata da qualche parte, la medesima fiammella di umanità e, per quanto mi riguarda, ringrazio il fatto che un viaggio, tanto meglio se “lento”, possa tenerla viva con le sue occasioni di incontri e riflessioni.

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Chi viaggia
senza incontrare l'altro, non viaggia,
si sposta.

(Alexandra David-Néel)

 

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